Le voci di dentro: l’artista Iginio De Luca spoglia la memoria delle pietre
Per Iginio De Luca il suono è riallacciare le fila con l’origine della civiltà umana, offrire un’indicazione topografica, una sorta di Google Maps preistorico, seguire le tracce dell’essere umano, averne memoria. Attraverso lo sfregamento epidermico e caldo delle mani con le superfici aspre dei reperti archeologici, l’artista ha raccolto un archivio sonoro e ha dato vita a un dialogo surreale tra pietre parlanti.
di Carmen Oria
Le pietre parlano, spogliano la nostra identità, esprimono la memoria dei popoli. L’atelier d’artista di Iginio De Luca ci regala qualcosa in più.
“Per me questa residenza è stata forte e appassionante, una settimana d’intensa permanenza dentro la natura prepotente e misteriosa dei Mercati, una dimensione viscerale della memoria storica che, al termine dei giorni, ha prodotto un’installazione sonora, un video e una performance. “Le voci di dentro” è un lavoro che nasce dal contatto con i reperti archeologici nel contesto immenso e sublime dei beni culturali di Roma”, racconta Iginio De Luca, artista e docente di Decorazione e Installazioni Multimediali all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, a riguardo dell’intervento nel Museo Mercati di Traiano realizzato da PAV nell’ambito del progetto Live Museum | Live Change, ideato da Francesca Guida, e sviluppato in partenariato con ECCOM-Idee per la Cultura, Melting Pro e Visiva Lab.
“La terra ha musica per coloro che ascoltano” scrive William Shakespeare e Iginio De Luca riferisce che all’inizio del processo di creazione ha avuto “un’ispirazione mentale, poetica, ma la vera esperienza nei giorni di residenza nell’Atelier è stato il contatto carnale con questi reperti, con la crudezza delle superfici, le asperità e le sedimentazioni del tempo. Una volta spolverati è come se i frammenti fossero tornati a parlare, generando un vocabolario illogico di voci sommesse, un bisbigliare incomprensibile di frasi. Un dialogo inatteso e sorprendente tra pietre incise e reperti marmorei che, nonostante millenni, rivendicano la loro anima e ne reclamano ancora la vita. Il suono è stato il medium più diretto, il linguaggio più intimo e sensibile per comunicare emozioni sopite, riesumare vibrazioni ancestrali. Da musicista-percussionista quale sono, il contatto manuale, tattile, è un aspetto che considero fondamentale nella mia vita come nell’esperienza performativa: la pelle delle mie mani risuona e si confonde con quella degli animali tesa sui tamburi a cornice; un contatto sensoriale che qui è stato rilanciato e calibrato sulla superficie liscia del marmo, su quella ruvida e traforata del travertino, degli architravi, delle porzioni di colonne. All’interno della cella dove ho lavorato e registrato, si era creata quasi involontariamente un’atmosfera teatrale allestita con le plastiche protettive delle pareti, tirate su e raccolte a mo’ di sipario, quasi a scoprire quinte nascoste, a svelare il rimosso e a preparare la scena. Dare voce e respiro a questi reperti in una performance musicale, non vuol dire solo riempire di suoni gli spazi sospesi e immobili dei Mercati, significa conferire nuova esistenza e perenne vitalità alla memoria, coniugare al presente, alla contemporaneità, il passato e tutti i suoi simboli.”
Gli esseri umani sono alla costante ricerca di nuove sensazioni. La tua sperimentazione intende svelarne la memoria attraverso il suono delle pietre?
Anche le sensazioni più nuove hanno qualcosa di atavico che per profondità e intensità risalgono il corso della storia indietro di millenni. Il mio progetto si è concentrato su queste memorie sonore che contemplavano un rapporto intimo con lo spazio e le pietre, un contatto alternativo che si sottraeva alla vista per generare linguaggi evocativi che negavano l’apparenza. Meraviglia e stupore sono le sensazioni che hanno nutrito quei giorni, sensazioni che tutti noi conosciamo, eppure sembrano ogni volta nuove quando risvegliano emozioni.
Cosa rappresenta il suono?
Il suono è la vita, l’essenza primordiale dell’uomo, il battito del cuore, lo scorrere del sangue, il ritmo del respiro; è una discesa viscerale nelle ragioni più nascoste del mondo, la pulsazione arcaica del nostro essere nella scansione inesorabile del tempo.
Ci sono altri artisti che suonano le pietre?
Nel campo delle avanguardie, della sperimentazione creativa, performativa e tecnologica, ci sono artisti, musicisti e compositori che negli anni hanno interagito con le pietre, hanno estratto suoni e reso dinamico un materiale apparentemente inerte. Il mio desiderio è di personalizzare questa esperienza e aggiungere poeticamente qualcosa di nuovo.
Penso alla frase del sassofonista statunitense John Coltrane “Non c’è mai fine. Ci sono sempre dei suoni nuovi da immaginare, nuovi sentimenti da sperimentare”. Ha pensato di far viaggiare questo progetto?
Mi piacerebbe vivere anche in altri luoghi questa dimensione sonora, una condizione comunicativa efficace, sensoriale ed empatica. Il suono è la mia vita, sicuramente vorrò accrescere ed espandere questa esperienza coinvolgente.
Cosa significa Memoria per te?
Ogni memoria è personale, anche se può partire da elementi obiettivi; una condizione soggettiva del presente che metabolizza il passato, un punto di vista parziale e poetico che filtra e interpreta gli avvenimenti, attualizzando un tempo trascorso. Si dice sempre che per avere coscienza del presente bisogna partire dal passato, costruirsi una base solida di consapevolezza etica e storica per agire responsabilmente senza afasie e mancanze. Io preferisco una coscienza visionaria, meno fedele ai fatti e in qualche modo più traslata e lirica; il mio lavoro spesso trae senso ispirativo dalla memoria, che sia collettiva o intima, una dimensione profondamente radicata nella mia sensibilità, cifra stilistica di tanti video, installazioni sonore e componente ormai imprescindibile del mio essere artista.
Ci racconti del musicista Iginio, come nasce e quali sono i progetti cui sta lavorando come percussionista?
Iginio musicista nasce 42 anni fa circa, a casa dei miei genitori nel quartiere di Monteverde vecchio a Roma quando casualmente viene montata nel salone la batteria di un amico di mio fratello. La sera stessa mi siedo sullo sgabello, afferro le bacchette e magicamente scopro una sintonia eccitante, un rapporto con lo strumento fluido e naturale, innato e spontaneo. Da quel momento e per il resto degli anni, ho sempre alternato l’arte alla musica, la pittura al ritmo, passando poi dalle bacchette alle mani, dalla batteria alle percussioni. Ho avuto la fortuna di suonare con tanti bravissimi musicisti facendo concerti, cd, viaggi, esperienze teatrali, insomma, una vita da “professionista del settore” attraversando le sonorità etniche, jazz-rock, e quelle popolari della tradizione dell’Italia meridionale. Contrariamente a quanto diceva mio padre: “Devi scegliere, o l’arte o la musica”, oggi ho scelto di non scegliere e convogliare nell’arte contemporanea ogni mia esperienza musicale e non, convinto che tutti i linguaggi siano praticabili nel campo della ricerca creativa.