Le mille e una nota

di Cecilia Guerra 

Blowing, 2020 – Carita Lupattelli (realizzato e gentilmente concesso in esclusiva ad Ecce Musica Magazine)

  

La musica viaggia lontano e in qualsiasi epoca. Essa porta radici che possono e devono appartenere a chiunque, comunica emozioni uniche e condivise attraverso un linguaggio universale: «la musica è quel genere di cosa di cui si sentono gli effetti e non si esprimono» (Charles Fonton in Leoni2004).

Oggi attraversiamo il Mediterraneo e approdiamo in terre aride per conoscere più da vicino la musica araba, spesso troppo distante dalle nostre esperienze.

Le prime attestazione musicali che possediamo ci portano indietro fino all’epoca preislamica e ci parlano di un canto chiamato udāʾ, utilizzato dai nomadi per incitare i loro dromedari durante i viaggi. Questo genere vocale veniva prodotto ripetendo delle frasi improvvisate, coordinate al passo degli animali. L’origine di questo canto sembra essere il lamento di un certo Muḍar ibn Naẓār il quale, dopo essersi rotto una mano cadendo dal cammello, urlò “Oh la mia mano, la mia mano!”.

La musica araba ha quindi radici antiche e, per essere pienamente compresa, va analizzata congiuntamente alle sue peculiarità. Per parlarne c’è bisogno di delineare alcune delle sue caratteristiche e di introdurre dei concetti a volte opposti rispetto a quelli della musica occidentale. Tra questi troviamo la monofonìa: l’esecuzione di un’unica linea melodica alla volta. Questa particolarità fa sì che la musica araba non persegua l’armonia e la verticalità del suono, al contrario essa procede orizzontalmente ed eterofonicamente. I musicisti infatti suonano la stessa melodia all’unisono, conservando la struttura del motivo principale e procedendo indipendentemente l’uno dall’altro grazie a una serie di variazioni estemporanee.

Altro fatto che fortemente contraddistingue la musica araba è l’improvvisazione. Per improvvisare, il musicista deve conoscere tutte le maqāmāt e le īqāʿāt.

Le maqāmāt sono sistemi di modalità utilizzati per costruire melodie. Al giorno d’oggi i modi identificati sono più di cento e vengono creati grazie al sistema scalare arabo che riconosce ventiquattro note per ottava, divisa in quarti di tono. È interessante aggiungere che le note musicali furono individuate nel IX secolo in base alla tastiera dell’ʿūd, il liuto a manico corto e che questo sistema prese il nome di aṣābiʿ (dita), poiché gli intervalli tra le note venivano individuati in relazione ai tasti del liuto e alle corrispondenti dita usate per suonare.  

Le īqāʿāt invece sono cicli ritmici che vengono memorizzati e utilizzati dallo strumentista per dare personalità alla performance. Attualmente essi sono circa cento ed alcuni comprendono fino a cento-settantasei unità di tempo.

Una volta decisi il modo e il ciclo ritmico su cui costruire la melodia, l’improvvisazione prende piede rappresentando l’animo del musicista (o del cantante), il quale non va del tutto a braccio ma segue un modello nel quale è libero di modificare e variare dei micro-dettagli. Questa favorisce il fenomeno del arab: una manifestazione di estasi musicale, uno stato mistico che il pubblico raggiunge grazie all’interpretazione dell’artista. Costui deve essere dotato di spirito e sentimento e deve essere abile, intonato e accurato in modo da produrre una comunione emotiva con gli ascoltatori. L’emozionalità è una caratteristica essenziale della performance musicale e in questo contesto, l’improvvisazione viene percepita come qualcosa di inatteso e di affascinante, qualcosa che interrompe un modello stabile e permanente, permettendo allo spettatore di provare un’emozione nuova. Non è così difficile ritrovare alcune di queste caratteristiche nel mondo occidentale, non un caso che la musica araba ha viaggiato molto.

Nell’822 d.C., ad esempio, Ziryāb (noto musicista persiano) approdò a Cordova, in Andalusia, allontanandosi dalla corte del sultano al-Rashīd a Baghdad, a causa del suo maestro al-Mawṣilī.

Quest’ultimo, archetipo del musicista perfetto e grande difensore dei valori della tradizione venne invaso dal suo egocentrismo e dalla gelosia per i suoi segreti artistici, a tal punto da percepire il suo allievo come un rivale. Per questo motivo al-Mawṣilī intimò Ziryāb di lasciare la corte. Egli però trovò fortuna a Cordova dove venne accolto alla corte del sultano. Qui fondò una scuola di musica, introducendo alcune delle caratteristiche tradizionali arabe e ponendo così le basi per la musica andalusa. Ziryāb divenne il personaggio più popolare e autorevole dell’epoca in quanto, oltre a conoscere i ritornelli di 10.000 canzoni, egli era così raffinato e arguto da dettare persino la moda.

Quasi contemporaneamente all’arrivo di Ziryāb in Spagna, gli arabi conquistarono Palermo nell’831 d.C. e vi si stabilirono fino al X secolo. In Sicilia essi mantennero alcuni elementi della cultura islamica e delle arti, diffusero l’uso di strumenti musicali come il rabāb, un liuto ad arco con puntale, l’ʿūd e alcuni tipi di tamburo.

In età contemporanea, il punto di svolta nei contatti tra il mondo occidentale e quello arabo fu lo sbarco di Napoleone Bonaparte ad Alessandria nel 1798. Ciò che oggi sappiamo sulla musica araba durante l’occupazione francese, lo dobbiamo in particolare a Guillaume André Villoteau. Etnomusicologo francese, egli studiò lingue orientali alla Sorbona e nel 1792 fu nominato maestro del coro dell’Opéra di Parigi. Nel 1789 sbarcò in Egitto come uno dei membri della Commission des sciences et des arts che presero parte alla spedizione di Napoleone. La sua prima affermazione sulla musica araba fu: «Lacera le orecchie!» (Farg2014). Per Villoteau non fu facile adattarsi allo stile egiziano: considerava le modulazioni forzate e barocche, gli ornamenti stravaganti e barbari, le voci nasali e gli strumenti dai suoni troppo sottili, sordi e aspri. Villoteau tentò di raccogliere informazioni sulla musica araba e sulla pratica musicale, attraverso domande rivolte agli egiziani in persona. Per avere risposte chiare e complete però, dovette insistere sul soggetto per ore o per giorni. Inizialmente pensò che i termini tecnici europei non venissero compresi. In realtà gli intervistati non riuscivano a rispondere in modo adeguato poiché non avevano mai riflettuto su come o su cosa suonassero. L’etnomusicologo fu effettivamente impressionato dalla naturale inclinazione degli egiziani per la musica.

La stessa cosa accadde a William Lane, orientalista, traduttore e lessicografo inglese. Già fluente nella lingua araba, Lane volle migliorare le sue abilità verbali viaggiando in Egitto nel 1825. Nel suo An Account of the manners and customs of the modern Egyptians, Lane dedicò un capitolo alla descrizione dei ruoli dei musicisti professionisti e delle cantanti donne, elencando gli strumenti musicali comunemente usati per le performance private e pubbliche, e raccogliendo varie trascrizioni musicali con testi. Egli osservò che le arie più popolari degli egiziani erano molto semplici: poche note per una o due linee ripetute più volte. Lane, a differenza di Villoteau, era attratto dallo stile musicale arabo e più lo ascoltava più ne era affascinato.

Per entrambi gli intellettuali, le comunità arabe non erano ancora visibilmente influenzate dalla cultura occidentale ma le caratteristiche della musica europea divennero sempre più tangibili, tanto che, nel 1932, musicologi, artisti e critici sentirono l’esigenza di discuterne al primo Congresso internazionale di musica araba. Così, nemmeno un secolo dopo, la situazione era cambiata radicalmente.

 

Bibliografia

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