Musicologia di divulgazione, musicologia di ricerca: un unico nemico, la superficialità

di Antonio Rostagno

Birth of Venus, 110×90, oil on canvas – Andrey Remnev, Cortesia della Dorothy Circus Gallery

Mai come in questo periodo avremmo bisogno di calma, di reciproca comprensione, di altruismo, e mai come ora le arti potrebbero tornare a costituire lo strumento di armonia anche sociale, di comunità, di condivisione. E invece sembra che musicisti, musicologi, divulgatori, operatori, curatori, organizzatori e persino ascoltatori abbiano ingaggiato quasi una lotta, una tensione reciproca; più che mai, come i diavoli di Malebolge: “digrignan li denti, / e con le ciglia ne minaccian duoli”. Sembra che mai come oggi i musicisti siano lontani dai musicologi e spesso dagli ascoltatori; freddezza del resto ricambiata dai musicologi, certo non immuni da colpe circa la attuale situazione che li vede relegati a una funzione marginale nel mondo della musica. E la reazione comune a questa marginalizzazione sociale della intera musica di tradizione d’arte non è affatto quella di unire gli sforzi, ma quella di farsi la guerra come i capponi di Renzo, con l’esito di soddisfare la propria egomania narcisistica, ma dare il colpo esiziale alla musica. E di questo siamo tutti, chi più chi meno, responsabili.

Eppure sarebbe tanto semplice trovare una qualche forma di dialogo che fosse di aiuto per tutti; ma pare che questo obiettivo sia estraneo ai nostri attuali sistemi esistenziali, dove le singolarità, il narcisismo autistico (mirabilmente quanto senza esiti ritratto da Christopher Lasch), la egolatria, sono ormai totalmente dominanti, dove il sentirsi parte di una cultura condivisa è quasi considerata una debolezza.

Si propone allora una riflessione sul perché e per chi fare musica, musicologia e divulgazione: in specifico cosa fa il musicista in una società che non richiede e persino non ammette attività “non-produttive”; quindi cosa fa la musicologia di ricerca e quella di divulgazione. L’arte in tal situazione non può che ridursi a commercio o svago (più spesso le due cose insieme)? Ciò che deve tacere è la riflessione, perché inevitabilmente divergente da quegli scopi pratici? Ma davvero non ci sono vie alternative? Davvero il musicista, ma soprattutto il musicologo (specialistico o divulgativo, qui non ci sono differenze) non hanno altra scelta né altra funzione? L’isolamento è senza discussioni il male peggiore, ma dal pregiudizio anti-sociale di certe “vecchie avanguardie” al cedere acriticamente alla concezione utilitaristica dell’arte e della cultura, corrono molte posizioni intermedie. E proprio qui si colloca la funzione della riflessione musicologica, sia di ricerca sia di divulgazione.

Il primo passo per questa visione di un futuro più attivo, necessita anzitutto di una maggiore apertura all’ascolto reciproco, di una volontà di dialogo e rispetto del lavoro altrui, che negli ultimi decenni anche in campo musicale sono andate scomparendo. Ed ecco come, per superare quella immagine di Malebolge, sarebbe della massima urgenza trovare un terreno su cui musicisti, musicologi, operatori culturali e pubblico tornassero a un rapporto più sereno di reciproca fiducia, apertura, comprensione. Lo sforzo del dialogo, soprattutto in periodo di covid-19, diviene il primo imperativo. Ma per realizzarlo occorre sforzo, autocritica, responsabilità; l’esatto opposto della superficialità con cui viene affrontato il proprio lavoro, senza porsi domande circa la propria funzione all’interno di una società sempre più distratta, semplificata e accelerata. Insomma, il nemico comune è la superficialità, il non porsi le domande fondamentali: cosa fa il musicista e cosa il musicologo nel contesto sociale? Perché fare musicologia e per chi? E le risposte sono le stesse per la musicologia di ricerca e di divulgazione? Chiamo superficialità il trascurare queste forme di autocritica e su questo occorre una riflessione.

Birth of Venus, 110×90, oil on canvas, particolare – Andrey Remnev, Cortesia della Dorothy Circus Gallery

Musicologia di divulgazione, musicologia di ricerca: un unico nemico, la superficialità

Perché la musicologia e la divulgazione musicale sembrano inutili a tante persone? Perché parlare di musica scatena frequenti reazioni di fastidio? Perché le quasi rabbiose reazioni di molti ascoltatori e di altrettanti musicisti? Perché per alcuni “musicologia” è un’attività non bene definibile, che si colloca fra la malattia mentale, il gioco da sfaccendati e il parassitismo? Più volte durante una “introduzione al concerto” si leggono chiaramente nei volti degli ascoltatori pensieri come: “che strazio!”, o più malpensanti “ma chi crede di essere questo? Cosa crede di insegnarmi?”; o ancora “Uff … io ’ste cose le so già e le direi molto meglio di lui”. Spesso i musicisti quando sono nella parte degli ascoltatori assumono un’espressione che potrebbe riassumersi così: “Ma ssiii! parla, parla; prova a suonare se sei capace; ma togliti dai piedi, cialtrone!” Vi garantisco: queste parole non sono solo pensate, sono chiarissimamente proferite dalle espressioni dei volti, che avviliscono e scoraggiano i più ardito dei musicologi. Ebbene non ho particolari difese da avanzare, perché quei pensieri coincidono esattamente quello che penso anche io in alcune simili occasioni, quando sono dalla parte degli ascoltatori.

Eppure è evidente che il parlare di musica è un bisogno radicato nella cultura musicale occidentale; se così non fosse avremmo smesso da tempo di pubblicare libri, libretti, note di sala, periodici e blog a questo dedicati. Se il musicologo cerca di capire i motivi di questi impietosi atteggiamenti, credo che debba come prima cosa fare una altrettanto impietosa autocritica; e lo stesso vale per la divulgazione musicale. Spesso la musicologia di ricerca è autoreferenziale, è un’attività che non ha come scopo null’altro che alimentare se stessa; ma altrettanto spesso la musicologia di divulgazione non divulga nulla, o si rivolge a pochi che già sanno mascherando la propria insipienza sotto un linguaggio tecnico, o non aggiunge nulla a quello che è comune conoscenza, perché abbassa troppo il livello e diventa intrattenimento leggero, più o meno elegante divagazione, ripetizione di cose arcinote, wikipedia da salotto. Se la divulgazione musicale rischia ad ogni passo di scivolare nella chiacchiera, il problema sembra opposto per la musicologia di ricerca, semmai concentrata su argomenti molto ristretti, a volte persino su finti problemi, perdendo di vista il perché fare ricerca e a chi tale ricerca dovrebbe rivolgersi.

Eppure i motivi dei due opposti problemi sono analoghi, anche se ciò non appare a prima vista: la superficialità e la semplificazione. Da un lato si presume di poter parlare a tutti abbassando il livello dei contenuti, dall’altro si presume che il disinteresse comune sia garanzia di elevatezza di contenuti. Da un lato il pregiudizio della semplificazione, dall’altro il pregiudizio dello specialismo: ma in comune la superficialità, perché né i musicologi né i divulgatori si pongono domande circa la reale utilità sociale del loro lavoro, senza autogiustificarsi, senza illudersi, senza monumentalizzarsi (difetto comunque assai diffuso nel genere umano nell’età del narcisismo, secondo Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Neri Pozza 2020). In tal modo la chiusura nel recinto riservato, la autoreferenzialità delle attività musicali-musicologiche aumenterà sempre più, fino a che la società nel suo complesso riterrà che non è più necessario investire soldi pubblici in queste attività, e lo spazio della musica performata sarà occupato in modo esaustivo dalle grandi banche dati (Youtube, Spotify) e dai social media, mentre il bisogno di riflessione musicologia scomparirà definitivamente e l’intera disciplina sarà resa inutile dalle enciclopedie digitali. Questi surrogati, simulacri ingannevoli di una memoria sempre più esternalizzata e non elaborata, sono infatti molto più funzionali alla nuova mentalità della mediasfera (o mentalità delle ICT, la sfera creata dalle Information-Communication Technologies come si usa dire). La cultura digitale poggia infatti su due principi fondativi del tutto opposti al modo di procedere della riflessione musicologica: accelerazione di ottenimento delle informazioni spicciole, semplificazione di ogni problema anche dove non di dovrebbe semplificare. Insomma, è divenuta nostra abitudine quotidiana delegare tutte le fatiche intellettuali alla macchina, protesi senza la quale ormai nessuno sa più vivere. Per cui diveniamo tutti uguali davanti a una mente di dio digitale, strumenti senza individualità che al massimo mettono in azione quella mente superiore indominabile, che tutto sa, ma senza alcuna coscienzalizzazione del ricordo. Questo tipo di memoria astratta, postumana, elimina alla radice la presa di coscienza delle memorie, ossia ciò che ci rende “me stesso”; la memoria individuale non conta più nulla; ciò che è andato perduto è la “autonarrazione” del soggetto di William James: posso ricordare alla mia maniera, con i miei errori, posso costruire il mio passato, che non è uguale al tuo perché non deve esserlo. Per cui vediamo un atteggiamento sempre più diffuso: quando espongo il mio ricordo, vedo spesso l’interlocutore attaccarsi al cellulare e controllare se sto dicendo cose “giuste”: ma dov’è il giusto? Nella memoria della rete? nella mente del nuovo dio digitale? Non è più attiva e interessante la mia memoria, con i suoi “errori”, ossia le connotazioni soggettive? Sinceramente: “viva gli errori”, muoia la memoria postumana!!!

E invece con la schiavitù al dato digitale, alla mente di dio elettronica, lo stesso sapere è divenuto un collage di frammenti, di nozioni semplificate e miniaturizzate; e siamo sempre meno capaci di dominare sistemi complessi, discorsi lunghi e articolati, riflessioni approfondite che richiedano concentrazione e continuità più lunga di due minuti. L’informazione attraverso il medium digitale è basata invece sulla rapidità e molteplicità di links, sulla diffusa, discontinua, a-logica, reticolare dispersione dell’attenzione verso altri frammenti, in modo che il pensiero si sbriciola in una molteplicità caleidoscopica e giunge in pochi minuti a collegamenti non previsti e non intenzionali. In questa vera e propria rivoluzione della mente (la “quarta rivoluzione”, secondo Luciano Floridi) il soggetto non ha più una sua individualità, un proprio percorso di pensiero, ma “funziona” in risposta a precondizioni imposte dal sistema della onlife digitale. Ed ecco che, in questo sistema (che Marco Revelli porrebbe fra “l’inumano e il postumano”), ciò che ne viene fuori sono curiosi collages di informazioni a bassa risoluzione, brillanti costruzioni di aforismi copia/incollati dalla rete, punti di interesse slegati da ogni discorso, in qui tutto può essere collegato a tutto, e possiamo collocare ogni cosa in relazione con ogni altra, basta semplificare, sminuzzare, decontestualizzare, estrarre dalla cultura di provenienza, insomma de-storicizzare ogni frase e ogni idea, cancellando la complessità del pensiero che le ha prodotte Heidegger  può diventare un mistico, Nietzsche un hegeliano, Rahner un ateo; posso trovare sulla stessa pagina Bruno e Galileo, persino Galileo e Bellarmino, basta dimenticarne la storia! e nessuno si scandalizza più quando per esempio Beethoven e la Sound Art sono posti in continuità inventandosi motivi di collegamento “che nessuno aveva mai visto prima”. Ed ecco la nuova mecca di certa cultura divulgativa che si stima “attuale”, la cultura del nuovo a tutti i costi (il “rethinking”, in un’epoca in cui già il “thinking” è a rischio!): trovare collegamenti “a cui nessuno aveva mai pensato”, ma se nessuno ci aveva mai pensato, ci sarà pure una ragione! Questi presunti collegamenti a sorpresa, questi radicali “ripensamenti” sono infatti per lo più privi di alcuna autocritica, e sono resi possibili solo dalla tecnologia avanzata, dalla sterminata memoria-archivio digitale, che tuttavia non ha coscienza storico-culturale e non è in grado di selezionare e generare collegamenti che vadano al di là di analogia terminologiche. Questa frenesia di trovare novità curiose e inedite (la neolatria) a cui “nessuno aveva mai pensato” è infatti un’altra malattia che infesta tanto la musicologia di ricerca quanto quella di divulgazione, opposta e complementare alla semplificazione e superficialità che ho indicato in inizio. È una malattia che annulla ogni senso storico, ogni responsabilità verso il passato; una storia che viene dimenticata perché archiviata nelle memorie digitali, alle quali confido di poter accedere facilmente e immediatamente; quindi memorie che non mi formano più, non fanno parte della mia cultura, ma che recupero da uno schermo che me le presenta però nelle più bizzarre associazioni, totalmente astratte da ogni loro fondamento storico-culturale. Questo è appunto il senso della differenza fra la memoria digitale e la memoria critica, la memoria culturale che distingue l’umano dal postumano. Data questa situazione, la musicologia ancor più che la musica composta ed eseguita ha il dovere di conservare e rivendicare questa qualità umana della storia dell’arte. Tanto la ricerca quanto la divulgazione che facciano troppo affidamento alla memoria digitale, che avviene ogniqualvolta il musicologo-divulgatore ha come sua fonte primaria la rete, sono inevitabilmente esposte a questo rischio di de-culturalizzazione, e ogni occasione è buona per ricordarlo.

Semplificazione e accelerazione: ecco il nuovo credo dell’homo technologicus (Jonas)! Ed ecco perché la divulgazione che semplifichi troppo è esposta a forti rischi. La musica di tradizione d’arte è complessa e richiede tempo di ascolto prolungati: come la mettiamo? Perché volersi “divertire” a tutti i costi con Beethoven? Perché mettere insieme cose che insieme non devono stare? O cambiamo la musica o cambiamo l’uomo, ed in realtà si sta tentando di realizzare entrambe le cose, da un lato con la internet music (qualcosa di assai prossimo all’internet of objects) dall’altro con la grande onda postumana (inutile ricordare qui una bibliografia ormai sterminata a partire dai pionieristici scritti di Rosy Braidotti al recentissimo Marco Revelli, Umano Inumano Postumano. Le sfide del presente, Einaudi 2020).

Riassumiano a questo punto i principi della infosfera che rappresentano potenziali rischi per la musica: da un lato la delega della memoria alle macchine, dall’altra la semplificazione estrema di ogni questione, come farebbe appunto un’intelligenza artificiale, dall’altra ancora una incapacità di estendere per lunghe durate il proprio pensiero concentrato unendo frammenti di sapere oltre i due minuti: questo è “l’uomo semplificato” tanto bene descritto da Jean-Michel Besnier nel libro omonimo, o da Miguel Benasayag nel mirabile Il cervello aumentato, l’uomo diminuito.

Ecco, in larga parte, i motivi per cui il parlare di musica sia sul piano della ricerca specialistica sia su quello della divulgazione è oggi caduto in così grande discredito: non si vuole sentire parlare seriamente di musica perché ci mette davanti al fatto compiuto che la nostra capacità intellettiva sta perdendo colpi, che non siamo più capaci di collegare le orecchie al pensiero, che ascoltiamo musica in stato di semiincoscienza, che non abbiamo più la profondità di memoria e di coscienza dell’uomo “pre-digitale”. Insomma, ascoltare Beethoven come avrebbe voluto Beethoven, ascoltare Schönberg con l’impegno morale da lui presupposto, ascoltare Berio nella sua complessa stratificazione strutturale, sono attività che presuppongono un atteggiamento critico e attivo, mentre la quarta rivoluzione, la rivoluzione digitale, ha generato l’uomo funzionante, attivatore di intelligenze a lui esterne, de-responsabilizzato, l’uomo semplificato di Besnier appunto. Per questo non vogliamo che arrivi un musicologo a dirci come ascoltare Beethoven, perché questo ci mette davanti al fatto compiuto, ci fa prendere coscienza che la nostra intelligenza umana si sta indebolendo per l’abitudine a delegare alla macchina le funzioni intellettive più faticose. E a ciò si aggiunge il nuovo principio del narcisismo: “non capisco” è una constatazione che l’uomo attuale respinge come impossibile; se non capisco significa che è sbagliato o mal espresso, ma non posso essere io a fare autocritica, per cui scatta l’inappellabile e aprioristico rifiuto. Se il musicologo mi invita ad ascoltare in altro modo, ecco scattare l’atteggiamento che ho descritto in inizio: “ma perché mi devo sforzare? Cosa vuole insegnarmi questo?” Ma a chi avesse la pazienza di studiare Beethoven, quello vero e non quello di wikipedia, risulterebbe chiaro che l’intenzione del compositore è precisamente quella per cui ad ogni nuova opera l’ascoltatore deve compiere un passo avanti, un progresso, una emancipazione da uno stato precedente. È l’idea del progresso umano come maturazione, come compimento, come continuo miglioramento di sé; nulla a che vedere con quel “divertimento” che oggi si chiede alla sua musica e che implicitamente mi offre conferma della mia capacità intellettiva, soddisfacendo al mio narcisismo. Ma il musicologo che parli del “vero” Beethoven, molto impegnativo e tutt’altro che divertente, tocca nel vivo proprio quel narcisismo che è divenuto oggi un habitus collettivo intoccabile: e guai a presumere di “insegnare” ad ascoltare! E allora ecco le due reazioni opposte: la musicologia di ricerca che si chiude nello specialismo, la musicologia di divulgazione che scende al livello della chiacchiera. Come si vede, quindi, questa situazione non è da imputare solo a una deriva in un senso o nell’altro da parte dei musicologi, ma è conseguenza della intera situazione culturale in cui viviamo.

Per questi motivi, non porsi domande sulla musicologia e sul parlare di musica sarebbe una gravissima colpa, significherebbe chiudere l’ultima porta per salvare una qualità di ascolto che si sta rapidamente perdendo.

Birth of Venus, 110×90, oil on canvas, particolare – Andrey Remnev, Cortesia della Dorothy Circus Gallery

Cosa, perché, per chi?

Vorrei allora riflettere su tre domande sostanziali, profonde, di principio: a cosa serve oggi la musicologia, a cosa la divulgazione musicale? a chi si rivolgono? Perché sono ancora necessarie? Insomma: cosa, perché, per chi?

A cosa serve oggi la musicologia? Troppo facile dire “a nulla”, una di quelle battute che fa sentire meglio chi la proferisce, “l’uomo pratico”, l’uomo che crede di agire liberamente e avere la verità sul mondo e sulla vita. Ma la risposta è assai più complessa: se davvero non servisse a nulla, occorrerebbe stabilire in modo indiscutibile cosa significa “servire” a qualcosa, cosa significa “essere utile”, a chi, con quali mezzi, a che scopo. Senza nulla sapere di un secolo di filosofia che da Nietzsche in poi ha operato la “trasvalutazione”, e senza nulla chiedersi ritenendo tutto ciò vuote inezie da sfaccendati, il nostro uomo pratico potrebbe dire che ciò che “serve” è il guadagno, possedere tanto denaro; ma anche questa “pratica dell’avere” è stata già da tempo messa in discussione. Oggi più che “avere” ricchezza, gioventù, bellezza, adeguatezza, il principio a cui tutto sottostiamo è il “riconoscimento”, l’essere riconosciuti dalla comunità d’appartenenza come ricchi, belli, giovani e adeguati, anche indipendentemente dai valori concreti: allora il problema circa il “ciò che serve” non è né il guadagnare molto, né il soddisfare i bisogni primari, ma “essere riconosciuti”. Certo, in questa antimorale la musica di Beethoven difficilmente “serve” a qualcosa; eppure neppure le emozioni, i sogni, il dolore, la nostalgia, l’amore “servono” al riconoscimento, ma proviamo ad eliminarli dalla vita e vediamo che succede!

Allora: cosa “serve” alla vita? Certo in tempo di covid-19 questi discorsi porterebbero lontano, ma tutti vedono quanto la politica oggi stia strumentalizzando la situazione, e anche in questo caso ciò che sposta gli animi e fa vivere le società in una tensione rischiosa non è il “concreto”, non il virus, non la ricerca medica, ma sono ancora le emozioni collettive pro e contra i dati e le prove fornite dalla scienza. Allora, ancora una volta, cosa “serve” alla vita? Cosa è più “concreto”, le scienze dure oppure ciò che si muove dentro gli esseri umani? Se la scienza fosse tutto, la sola cosa che serve alla vita, perché si sta scatenando tanta aggressività, che la pandemia anziché attenuare ha esponenzialmente acuito? E allora se invece di condannare le arti, come stanno facendo molti governi, relegandole fra le azioni sociali che possono essere tagliate, le si curasse con maggiore attenzione come forma di educazione morale collettiva, forse questo sì che “servirebbe” più di mille discorsi politici dinamitardi e battaglieri, che per scopi di potere infiammano la rissosità sociale alle due sponde dell’Oceano.

Ma se un musicologo oggi si azzardasse ad affrontare questi argomenti, l’esito sarebbe un’alzata di sopracciglia da parte degli “uomini pratici”, che non esitano invece ad attribuire massima importanza all’ennesima frase infuocata di politici sconsiderati, che dilaniano il corpo sociale tanto quanto la musica e le arti potrebbero fornire terreno per una maggiore armonia.

Non si venga allora a ripetere il disco rotto del “cosa realmente serve”, perché è un discorso totalmente privo di fondamento: potrei egualmente dire “a cosa serve” buona parte del dibattito politico attuale? Stiamo parlando non di valori sostanziali, ma di costruzioni, di convenzioni, di habitus appunto, senza bisogno ora di scomodare Bourdieu o Foucault: l’abitudine condivisa vuole che alla politica venga “riconosciuto” (ancora il paradigma del riconoscimento) un valore superiore alle arti. Eppure, senza andare troppo lontano, ancora un secolo e mezzo fa in una Vienna capitale imperiale a Brahms, poi a Mahler erano riconosciuti ruoli sociali di altissimo prestigio; non parliamo di Verdi, o di Toscanini, i cui funerali sono state cerimonie civili che hanno coinvolto l’intera comunità per uno spontaneo moto collettivo di riconoscimento identitario, come mai è accaduto per nessun uomo politico. Questione di cultura … appunto.

Se anche il musicologo, il divulgatore, ma anche il musicista non sanno chiarire questo delicato punto del rapporto con la società, e non lo chiariscono anzitutto a se stessi, non avremo mai una chiara percezione di cosa facciamo, perché lo facciamo e per chi.

Forse la musicologia e la divulgazione potrebbero essere di qualche aiuto ad innalzare questa “riconoscibilità” della musica d’arte nelle società neoliberiste del postcapitalismo? Credo proprio di sì, ma non certo blandendo il pubblico dicendogli “ciò che vuole”, né correndo dietro a un consenso di massa con un gioco al ribasso, e certamente neppure cercando di uniformarsi a “ciò che serve” un una società del “riconoscimento” esteriore come l’attuale.

Cosa resta alla musicologia? E alla divulgazione musicale?

Proveremo allora a definire “a cosa serve” la musicologia di ricerca e/o di divulgazione, insomma cosa può fare per dare qualcosa di concretamente utile alla comunità. Cosa studia la musicologia, qual è il suo oggetto? In secondo luogo, perché e per chi scrivere di musica? c’è spazio per un pubblico che vada oltre i venticinque lettori di Manzoni?

Speculari ma capovolti sono i problemi della divulgazione: che significa “divulgare” la storia della musica? occorre dire le cose basilari su alcuni dei grandi capolavori della storia? Ma non si è detto già molto? E non si trova tutto con un minimo sforzo digitale sul cellulare, in ogni momento della nostra vita, senza bisogno di sentirlo da un conferenziere o un conduttore radiofonico? Se lo trovo da me sull’autobus o mentre sono in attesa dal dentista, o in coda nel traffico romano o persino mentre mangio il mio tramezzino, perché mai devo cercare quelle stesse informazioni perdendo tempo ad ascoltare la radio o una conferenza (pure a pagamento, magari! ma guarda che pretesa!), o perché mai devo sforzarmi di comprare un libro (e persino leggerlo tutto! Uff, che spreco di tempo “utile”, che inutilità “non-produttiva”!)? Ma se davvero divulgare significasse solo ripetere cose arcinote, quelle che trovo da me sul cellulare nei ritagli di tempo, la sola vera distinzione sarebbe nel modo, lo stile in cui quei contenuti vengono esposti: il “bravo divulgatore” sarebbe colui che dice le solite cose ma nel modo giusto per arrivare ai meno attrezzati, non colui che ha realmente qualcosa di nuovo da dire.

E allora: divulgare è questione non di contenuti ma di forma comunicativa? Di come e non di cosa? Il divulgatore dovrebbe quindi semplicemente ripetere le nozioni fondamentali (stile wikipedia), ma con il tono, il registro, la qualità espositiva adeguata al non specialista? Insomma, non rinnovare i contenuti, ma solo i modi? Se così fosse, tanto vale accontentarsi di wikipedia, che almeno ci risparmia una ennesima ostentazione di egocentrismo narcisistico!

Ma se fosse vero quanto appena detto, dovremmo concludere che è davvero impossibile un collegamento fra ricerca avanzata e divulgazione? Ovviamente penso di no: una musicologia di divulgazione ben impostata, esattamente come quella di ricerca, è necessariamente aggiornata sulle letture più recenti, per portare al pubblico allargato una lettura della storia che sia adeguata alla società viva e attuale. Dare notizie biografiche, ripetere le notizie che si trovano su ogni manuale di scuola o descrivere “come è fatta” una sinfonia di Beethoven (sentite questo secondo tema, sentite questa modulazione alla sesta abbassata, sentite il tema di questo fugato che deriva per aumentazione dalla sostanza subtematica nascosta nella battuta 216 del secondo movimento, sentite questa settima diminuita che non risolve ecc.) non mi sembra in sé oggetto sufficiente di “divulgazione”. La musica non si descrive, primo perché essa si descrive da sé, secondo perché parlarne in termini tecnici significa parlare a chi le cose le sa già e non gli occorre un mediatore, mentre chi non ha preparazione tecnica comprenderà in modo parziale e inutile, insomma non sarà un avvicinamento ad un ascolto “più consapevole”. E poi consapevole di cosa? È davvero “importante” capire che quel secondo tema non è alla dominante come “dovrebbe” (e perché poi dovrebbe? era sulle tavole di Mosè?) o che quel nuovo motivo in realtà non è nuovo ma derivato da uno precedente (ma perché dovrebbe essere importate “capire” che ciò che ascoltiamo non è una novità ma una derivazione da qualcosa di precedente)? Perché questi rilievi tecnici sarebbero “importanti”? non è più importate ai fini di una “maggiore consapevolezza di ascolto” riflettere, e magari discutere insieme agli ascoltatori, il perché: perché Brahms nella sua situazione culturale (il capitalismo borghese nazionalista) dà tanto rilievo a quella tecnica di derivazione motivica? Quale significato culturale e sociale ha questa tecnica compositiva di collegare temi apparentemente diversi? Perché a Mozart non interessava dedurre motivi uno dall’altro e a Brahms si? Cosa accadeva nella Vienna degli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento, per cui una comunità voleva sentire quel particolare costrutto, cosa significava in termini sociali, culturali quel lavoro intellettuale, e cosa significa invece oggi nella società della distrazione quello stesso costrutto per un uditorio che ha abbassato moltissimo la sua capacità di concentrazione? Oppure: qual è la mentalità che spinge tanto Schönberg a cercare il lavoro intellettuale nella nuova sintassi seriale, quanto Max Weber a compiere la sua critica al capitalismo? Questi sono i veri interrogativi che “spiegano il significato” di una musica, ossia come quella determinata composizione ha in sé i medesimi principi che governano la vita sociale, politica, economica, spirituale di quel momento storico; che poi ci siano due o tre temi in una forma sonata, non mi sembra proprio il punto di massima utilità sociale a cui la musicologia possa aspirare, tanto quella di ricerca quanto quella di divulgazione

Insomma ciò che dovrebbe interessare, il “cosa” costituisce il vero oggetto di studio della musicologia: non è il “come è fatta” per esempio una forma sonata, ma il “perché” una comunità ha prodotto quel preciso tipo di forma, che esigenza c’era, a quali bisogno collettivi tale forma costituisce una risposta, e le risposte non si trovano certo nella musica, non si raggiungono certo con la semplice descrizione del “come è fatta”. Descrivere una forma sonata, infatti, è cosa che si può spiegare a una persona di media intelligenza in non più di 15 minuti, e riconoscere poi nell’ascolto queste costruzioni è cosa assai semplice; capire invece perché a fine Settecento, in esatta contemporaneità con la maturazione del pensiero di Kant, la civiltà europea ha sentito l’esigenza, il bisogno sociale di una forma così concepita richiede invece una serie collegamenti che coinvolgono storia sociale, politica, militare, religiosa, di costume, di mentalità; e qui il musicologo-divulgatore fa addirittura fatica a contenere la materia nelle due ore massime di durata di una conferenza. Ma questo sì che servirebbe a generare un “ascolto più consapevole”; quanti musicisti saprebbero spiegare perché Monteverdi è contemporaneo in parte di Tasso in parte di Cartesio? Perché Mozart di Kant? e Beethoven di Hegel e Goethe? Perché Verdi di Cavour? Perché Stravinskij di Picasso ma anche delle due grandi guerre? perché Jimi Hendrix di Martin Luther King e di JFK. E mi chiedo allora:

  • come fanno i musicisti a suonare queste musiche senza porsi questi problemi?
  • come facciamo ad ascoltarle senza conoscere questo necessario retroterra?
  • perché i musicologi di ricerca e il divulgatore non si mettono al servizio della musica facendo un passo indietro?
  • perché gli organizzatori di grandi eventi (oggi si parla di curatorial turn, ebbene questi curatori devono pur prendersi le responsabilità che il turn ha loro assegnato) non prevedono conferenze in grado di attirare il grande pubblico proprio su questi argomenti fondamentali? E questo non lo può certo fare un concerto, che ha tutt’altri scopi. Perché ci si accontenta di piccole pillole di divulgazione stile wikipedia, in cui vengono ripetute stancamente sempre le stesse notizie che tutti abbiamo sentito mille volte e che possiamo trovare con un pigro movimento dell’indice sul nostro cellulare?

Occorre infatti tenere presente la profonda modifica imposta dalle nuove tecnologie che usiamo quotidianamente: l’attenzione di ascolto è molto diminuita, resa discontinua e distratta. La musicologia di ricerca non deve affrontare questo problema con la stessa urgenza della divulgazione: quest’ultima dovrebbe avere come obiettivo quello di ricostruire una continuità di attenzione, una qualità dell’ascolto attento, che altrimenti le attività della onlife (la mediasfera) hanno del tutto cancellato, imponendo una “accelerazione” e una “superficialità” e “semplificazione” (studiato da teorici come Luciano Floridi, Pensare l’infosfera, e filosofi come Jean-Michel Besnier o Byung-Chul Han, La salvezza del bello), il multitasking e il multiversum, frontalmente opposti all’ascolto della musica di tradizione d’arte. Questo è forse il problema fondamentale, da cui tutto il resto dipende. La vera sfida della divulgazione musicale allora diviene una questione che va ben oltre la notizia spicciola, la descrizione puntuale, ma affronta in modo consapevole e utile alla intera comunità le grandi questioni del rapporto con la mentalità del “presto e semplice”. La ricerca ha tempi più lenti e si rivolge a pochi lettori che implicitamente hanno una formazione adatta a questi “tempi lenti”; il divulgatore no, anzi ha il dovere di comprendere le nuove strutture comunicative non per il “gioco al ribasso”, ossia avallare la “superficializzazione” dell’“uomo semplificato”, ma per far emergere criticamente quello che in tali processi è a rischio di fine dell’umano, rimpiazzato dal postumano. Postumano e ICT, in tal senso, non sono solo evidenze del progresso, ma rappresentano una mentalità che la cultura ha il dovere di affrontare con la massima consapevolezza, cosa che sinceramente vedo raramente, tanto nella musicologia di ricerca quanto in quella di divulgazione.

Il principio assente, o forse la radice profonda del problema, quindi, è la mancanza di presa di coscienza, di responsabilità verso ciò che si sta facendo: troppo raramente ci si pongono le tre domande che ho sopra anticipato: cosa realmente è l’oggetto di ciò studiamo, le note, il movimento per eseguirle correttamente, il suono in sé, oppure ciò che note e suoni hanno in se come segni della storia, come oggetto di un dialogo fra l’attualità e la storia, come senso e significato (una vecchia domanda, che meriterebbe di essere ripresa, diceva; “suonare le note, o suonare la storia?”)? Perché studiamo la musica? Per chi produciamo studi, nuove esecuzioni di brani già eseguiti e ascoltati mille volte? E per il divulgatore: di cosa parlare alla società? Perché divulgare la musica? Per chi farlo, a quale uditorio rivolgersi?

Purtroppo so che la risposta, in molti casi, se fosse sincera sarebbe: cosa? Il primo argomento che mi chiedono di fare, io sono divulgatore quindi posso parlare di tutto, e basta riempire pochi minuti con la prima impressione che mi viene da dire; perché? Per diventare famoso e andare a testa alta, per l’“onore” del mio nome (Ah Verdi! … Ah Sir John Falstaff! …)? Per chi? questa è facile: per me stesso!

Birth of Venus, 110×90, oil on canvas, particolare – Andrey Remnev, Cortesia della Dorothy Circus Gallery

Una conclusione: questione di stile?

Secondo Tom Nichols (La conoscenza e i suoi nemici. L’età dell’incompetenza, Luiss Univ. Press 2018) la attuale “cultura del narcisismo” è “peggio dell’ignoranza”. Da queste letture si deduce un binomio narcisismo e depressione, che porterei a formulazione più estrema come narcisismo e disperazione, e che mi sembra cogliere purtroppo la situazione attuale in epoca di covid-19; anzi mi sembra che gli obblighi sociali a cui la pandemia costringe (o dovrebbe costringere …) stia esaltando proprio questo devastante binomio comportamentale. Sorge allora una domanda al modesto musicologo: ma non sarebbe proprio in casi unici ed epocali come questo che la musica, la musicologia e la divulgazione potrebbero, unite, esercitare qualche efficace utilità sociale? E invece assistiamo a una aumentata diffidenza reciproca. Ma, ed è ancora più grave, assistiamo soprattutto a un assordante silenzio da parte di uno stato avanzato (l’Italia, ma non solo, dato che la situazione è poco diverse in altri sistemi economici anche più solidi, da entrambe le parti dell’oceano), che rischia di dare un colpo esiziale a tutto il sistema della musica performata, socializzata. La gravissima carenza di investimenti statali a sostegno delle arti performative agirà come una chemioterapia, che porta via il bene e il male, lasciando dietro di sé il deserto, purificato forse da tutti quei fastidiosi narcisismi, ma privo di vita. Riflettere e far sentire una voce alta su questi problemi, non è tanto compito degli artisti performativi, quanto soprattutto (almeno nella teoria) di coloro che per mestiere usano la parola, ossia appunto musicologi, divulgatori, giornalisti: da tutti costoro (e ovviamente metto nella categoria anche me stesso) viene invece un silenzio che rappresenta gelidamente proprio quel binomi di Nichols: “narcisismo e disperazione”, ognuno piegato sulle sue sudate carte,  pronto a ergersi col petto e con la fronte sdegnoso al mondo per suo gran dispitto (lo stesso, purtroppo vale anche per i musicisti, sia chiaro; ma potrei citare alcune luminose eccezioni, per nostra fortuna).

In questa situazione, le due attività (musicologia di ricerca e di divulgazione) dovrebbero smettere di fare i capponi di Renzo, poiché sono ormai entrambe ridotte ai minimi termini, e un maggior dialogo fra di esse sarebbe auspicabile perché entrambe riacquisissero la centralità a cui le avevano portate un Massimo Mila o un Fedele D’Amico. Ma ciò non basta, se non avviene un’ulteriore ripresa di fiducia verso il “parlare di musica” da parte dei musicisti e del grande pubblico. Certo per fare questo non tutti i musicologi, non tutti i divulgatori (e non tutti i musicisti: non posso non ricordare un aforisma di Jean Cocteau: “Un artista non può parlare della sua arte più di quanto una pianta possa discutere di orticoltura”) hanno le carte in regola, occorrono competenze differenziate, occorrono qualità di livello diverso.

Ma nulla sarebbe più sbagliato che chiudere con una nota di pessimismo: le forze ci sono, e mi sono permesso di parlare senza censura autoimposta al di là di ogni political correctness. Spererei che musicisti, musicologi, divulgatori e ascoltatori convergessero nell’obiettivo comune di salvare la musica della lunga storia europea da una crescente aggressione da parte dei media, che sempre più la dipingono come cosa morta e fuori dal circolo produttivo, da parte dei new-media che danno spazio a forme di sound, di vapor di digital art, di sampling, di meshup, ecc. ossia tendenze che hanno sì una loro dignità, ma sono effimere, legate a mode momentanee, e non possono né devono prendere il posto della musica di tradizione d’arte. Sono cose del tutto diverse; non meglio e non peggio l’una dell’altra, ma sia ben chiaro: diverse. Correre dietro il grande consenso ‘popolare’, da parte della musica di tradizione d’arte è del tutto insensato, non è il mercato a costituire il suo obiettivo. Quindi tanto il musicista quanto il musicologo (ricercatore o divulgatore) non dovrebbero scambiare gli obiettivi estetici con quelli economici. Se il divulgatore mira ad attrarre il pubblico con retorica “al ribasso”, con uno stile colloquiale, con ammiccamenti, con falsa simpatia, con l’intervista “giovane”, smart, magari fatta dal cellulare per emulare i rappers downtown, mi sembra solo ridicolo, fuori luogo, inadeguato all’oggetto che tratta.

Musicologia e musica di tradizione d’arte hanno una profondità e una sostanza ormai troppo “pesanti”, cariche di storia: “musica pesante” appunto. Non si può intendere la “divulgazione” soltanto come un avvicinamento agli atteggiamenti della “musica leggera”, musica che non ha storia altrettanto profonda e non porta sulle spalle la vita e la cultura di decine di generazioni. Divulgare è anzitutto far prendere coscienza di questo “peso”, non alleggerire ciò che non è leggero.

E di qui passo all’ultima riflessione: un altro dei luoghi comuni ormai stantii perché troppo spesso ripetuti è l’importanza della “leggerezza”, per cui si richiama fino alla nausea l’Italo Calvino delle Lezioni americane (per lo più senza averlo letto, ma questa è la cultura della differance derridiana, nessuno si scandalizza più, anzi nessuno coglie più l’ambiguità dell’intenzionale errore di scrittura). Ebbene non sono mancate le giustificazioni dell’assimilazione della musica di tradizione d’arte alla musica leggera: si potrebbe infatti pensare che proprio via Calvino la trasformazione di Verdi in “musica leggera” sia una sua nobilitazione in chiave moderna. Ebbene, qui si nasconde un radicale travisamento, un pericoloso fraintendimento: si scambia la leggerezza con la superficialità. La lettura pop di Beethoven (di Verdi, di Brahms ecc.) è sempre un errore, sempre un travisamento, e secondo me (ma se ne può discutere) un insulto. La superficialità, diversamente dalla leggerezza, è figlia della ignoranza, della scarsa conoscenza, è sintomo di uno stadio culturale precario, incompleto, deficitario; la leggerezza è una conquista suprema, un punto di arrivo non-giovanile, che si può acquisire solo al termine di un lungo percorso, dopo aver passato, scartato, selezionato, archiviato moltissime esperienze, molte sconfitte, molti errori. Se la divulgazione ha un ruolo supremo, allora, è proprio nel portare questa leggerezza come punto d’arrivo di un profondo processo culturale a un pubblico che ancora non ha compiuto quello stesso percorso. E come si vede questa non è questione di forma, di come parlare al pubblico, ma di sostanza, ossia di esporre ciò che è davvero importante per comprendere un autore, un periodo storico, una musica. E il “significato”, o meglio quello che Frege chiamerebbe il “senso” profondo della musica dei grandi autori, sta al di sotto della superficie, in una profondità che il vero divulgatore ha la capacità di fare divenire “leggerezza”. E non diverso, in sostanza, dovrebbe essere il lavoro del musicologo di ricerca, spesso perduto invece in quelle profondità dove nessuno lo può seguire.

Che fare?

Non esiste risposta. O meglio ognuno dovrà trovare la sua. Per quanto mi riguarda posso immaginare quattro principi, molto elastici e non dogmatici, sui quali personalmente fondo la mia attività di storico: critica e autocritica (ogni azione è frutto di riflessione critica anzitutto si se stessi), responsabilità (non occorre scomodare Hans Jonas, ma è proprio a lui che penso; e forse una rapida rilettura non farebbe male: prima di agire chiediti sempre che conseguenze la tua azione potrebbe avere sugli altri), profondità (non accontentarsi di come la cose appaiono, e di come le situazioni sembrano; ma anche profondità del suono, concezione dell’esecuzione non come esposizione di suoni e note ben fatte, ma del fregeano “senso” che in ogni azione umana è collocato), continuità (fondazione storica del proprio comportamento, e conoscenza storica a sostegno della propria azione, tanto per che esegue quanto per chi organizza e programma, tanto per il musicologo quanto per il divulgatore: non esiste “arte di consumo”).

Temo che, per chi ha avuto pazienza di leggere fin qui, queste quattro conclusioni possano suonare come atti di accusa. Ovviamente nulla è più lontano dalle mie intenzioni: è un finale aperto, e i quattro principi richiedono ulteriori discussioni. E sarò felicissimo di cambiare idea, se incontrerò posizioni più convincenti di quanto ho potuto fare in queste pagine.

Birth of Venus, 110×90, oil on canvas, particolare – Andrey Remnev, Cortesia della Dorothy Circus Gallery