Verdi tra memoria e disillusione

di Manuel Caruso

©Peppe Tortora property of ARCHIVE TORTORA. Cortesia della Dorothy Circus Gallery

 

Pietro Gelli sosteneva che ogni commemorazione è sempre un pericolo, non per l’evento in sé quanto per la retorica derivante e per gli eventi di massa (Gelli 2000). E lo è maggiormente nel momento in cui i centoventi anni dalla morte di Verdi sono accompagnati da un’altra commemorazione: il 27 gennaio 1945 le truppe alleate scoprirono il vicino campo di concentramento di Auschwitz, liberandone i superstiti. L’apertura dei cancelli e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazifascista.

Ci interrogheremo sulle possibili relazioni tra le due ricorrenze; sulle implicazioni tra il pensiero irenico verdiano e la testimonianza riportata da chi quella tragedia ha avuto la sfortuna di viverla in prima persona.

È il 6 dicembre 2001. Liliana Segre, attuale senatrice a vita, nell’auditorio di Santa Margherita a Venezia, racconta la sua esperienza di ragazza deportata nel campo di concentramento di Birkenau ad Auschwitz. Silvia Romero cura la trascrizione di questo intervento, pubblicandolo sulla Rivista telematica di studi sulla memoria femminile: dalle minuzie dei particolari, dal contrasto tra l’essere una normalissima bambina ebrea e il diventare improvvisamente “fuori legge”, emerge un’umanità ferita (la sua) e compromessa (quella di tutti). E tralasciando, per dovere di sintesi, la cronologia della personale vicenda, ci soffermeremo sugli aspetti essenziali dell’intervento, alla ricerca di scintille di umanità, dalle quali prenderemo spunto per ricordare Giuseppe Verdi ed il suo Nabucco.

Luciano Berio sosteneva che «un’Italia senza Verdi sarebbe come un’Inghilterra senza Shakespeare» (Berio 2013). I motivi sono molteplici: qualità della composizione, concezione drammaturgica, filosofia della musica, carisma e forza d’animo. Verdi viene spesso descritto come l’uomo simbolo del Risorgimento, rappresentante della patria italiana nel mondo; parlare di Verdi, per citare Massimo Mila, significa «parlare del padre» (Mila 2012): è l’italiano nuovo, l’italiano risorgimentale. In realtà, discussioni sul ruolo di politico di Verdi nel processo di unificazione ce ne sono, e non poche. Si, perché c’è il Verdi uomo e c’è il Verdi personaggio; c’è il pensiero di Verdi e c’è la sua ricezione. L’idea di arte verdiana risorgimentale ha ancora non poche incomprensioni e luoghi comuni legati ai concetti di patria, nazione, nazionalismo. Da una parte, l’immagine di un Verdi al fronte dal tricolore sventolante in mano, la cui musica al servizio di una nazione tutta ancora da costruire, con la sua melodia tutta italiana (come se una melodia avesse dei tratti etnici/nazionali); dall’altra parte, il processo di decostruzione di tale carattere nazionale di Verdi, che «non è una qualità tecnico-formale né una questione di soggetti teatrali, ma un ambito concettuale, un elemento del collettivo discorso nazionalista, che riguarda più la [sua] figura storica e la [sua] ricezione, che la produzione artistica» (Rostagno 2017). Ma tolto di mezzo il personaggio Verdi e le costruzioni patriottiche cucitegli attorno, cosa ne rimane dell’uomo, del pensiero, dell’intenzione reale dell’autore? In che modo risulta confrontabile con le parole della senatrice Segre? Procediamo con ordine.

Il 1840 viene definito da Verdi come l’anno più terribile della sua vita: muoiono moglie e figli e l’opera Un giorno di regno è un insuccesso totale. Depresso e demotivato, abbandona l’attività di compositore, ma l’impresario della Scala Bartolomeo Merelli insiste in ogni modo per fargli scrivere nuova musica per un libretto bell’e pronto: è il Nabucco, arrivato a noi dopo più di un secolo di interpretazioni, o per dirla alla Gadamer, «con possibili modi di essere propri dell’opera stessa, la quale, in un certo senso, interpreta sé stessa nella varietà dei suoi aspetti» (Gadamer 1983).

La sinossi dell’opera, in breve: gli Ebrei a Gerusalemme si lamentano per il loro destino perché sono stati sconfitti da Nabucco, re di Babilonia. Fenena, figlia di Nabucco, viene catturata e Ismaele, nipote del re di Gerusalemme, la controlla. Tuttavia, i due, innamorati, tentano la fuga. Arriva in quel momento Abigaille, l’altra figlia di Nabucco, anche lei innamorata di Ismaele, la quale, avendo scoperto i due amanti, minaccia Fenena nel frattempo divenuta governatrice della città di Gerusalemme e convertitasi all’ebraismo, liberando tutti gli schiavi ebrei. Abigaille entra con la forza in Gerusalemme con un piccolo esercito. Ma arriva anche Nabucco, creduto morto in battaglia, che riprende la corona e maledice il Dio degli Ebrei, che lo fulmina all’istante. Abigaille approfitta della conseguente follia del padre per dichiararsi nuova regina e condannare a morte tutti gli Ebrei. Nabucco sa che così morirà anche sua figlia Fenena e, rinsavitosi, si converte anche lui all’ebraismo pregando Jehovah di aiutarlo. Una parte dell’esercito crede ancora in lui e lo aiuta a tornare Re. Abigaille, affranta, si avvelena chiedendo perdono. L’opera termina con il coro Immenso Jehovah, e con il profeta Zaccaria, intento a predire la sorte di Nabucco, governatore di tutti i popoli della terra.

Dunque, il primo elemento: Ismaele, ebreo, ama Fenena, la libera ed è cacciato dagli ebrei; Fenena, babilonese, ama Ismaele, viene perseguitata e condannata dai babilonesi. È un conflitto interno ad ogni fazione che per Verdi è universale, perché si trova dentro la natura umana: il male è insito in ogni popolo, compito di ciascuno è trovare quella scintilla di umanità che distingue gli uni dagli altri.

Nabucco, spaventato dal perdere sua figlia Fenena, si rende conto della malvagità delle sue azioni e si converte; Abigaille, divorata dal livore per un amore non corrisposto, chiede perdono e si avvelena. Verdi mette a nudo le componenti psicologiche dei personaggi: non sono più semplici re, padri, figlie, servitori: sono uomini o donne che si riconoscono nella loro natura imperfetta e umana. Eppure, accostando il messaggio verdiano alla testimonianza di Liliana Segre, la disillusione verso un’idea di umanità perfettibile è totale:

per mesi abbiamo visto morire le nostre compagne, per mesi abbiamo visto calare le nostre forze, abbiamo visto i nostri assassini torturare, fare esperimenti e trattare con un’inumanità che non credevamo possibile al mondo (che degli esseri umani fossero capaci di fare delle cose del genere ad esseri simili, colpevoli solo di essere nati) (Romero 2001).

L’aggressione razziale nei confronti degli ebrei è il risultato di un processo lento ed insidioso. Come fa notare lo storico Aldo Mazzacane, il Fascismo, rispetto al Nazismo, non poggia i propri ideali fondativi sul problema della razza. Prima dell’emanazione delle Leggi Razziali, molti ebrei si sentivano italiani perché avevano partecipato alla battaglia risorgimentale, altri addirittura appoggiarono la causa fascista, ma nonostante ciò il pregiudizio antiebraico non è mancato neanche nell’Italia liberale. E nonostante ogni italiano amasse il Va pensiero, cantato nel Nabucco proprio dal coro di ebrei in cattività, tracce di ostilità serpeggiavano nei ceti più vari. Barzellette, giornali umoristici, diffidenze generalizzate e teorie demo-antropologiche, basate sull’idea di caratteri innati delle varie razze, ponevano le basi per una progressiva diffidenza sempre più statalizzata; lo stesso Mussolini, inizialmente, non espresse mai una posizione netta sull’antisemitismo. Lo storico Michele Sarfatti riassume i principali indirizzi dei primi quindici anni del governo fascista in merito al rapporto con la comunità ebraica:

Condannava l’adesione al sionismo di ebrei italiani, ma non il sionismo come movimento nazionale; utilizzava quest’ultimo nel confronto con la Gran Bretagna, ma era contrario a uno Stato ebraico in Palestina; rallentava l’afflusso di ebrei est-europei nella penisola, ma riconosceva il ruolo nazionale delle élites ebraico-italiane nelle principali città del Mediterraneo; sollecitava gli ebrei italiani a nazionalizzarsi e a fascistizzarsi sempre di più […], ma rendeva sempre più cattolica la nazione (Mazzacane, 2011).

Se Verdi nel coro finale Immenso Jeovah lancia un messaggio irenico tra i diversi popoli, sperando in una unione ritrovata, il pensiero fascista divide, esclude, alimenta i sospetti nell’ opinione pubblica sino ad un graduale allontanamento del diverso.

Il Va pensiero, caricato nel tempo di valenze politico-patriottiche, è il coro centrale dell’opera. Il tema è il seguente: i dolori sofferti da un popolo oppresso (nel caso specifico, il popolo ebraico) troveranno consolazione nel ricordo del tempo che fu, della terra lasciata alle spalle; non c’è un riscatto vero e proprio, quanto una rassegnazione alla propria condizione di esuli. È una preghiera rivolta a Dio, al quale si richiede la capacità di soffrire, di sopportare la sofferenza con la virtù. Ecco la vera liberazione, il sentirsi liberi nella difficoltà.

Portati alla stazione centrale, nei sotterranei erano preparati dei vagoni […]. Il viaggio è un momento importantissimo – chiave della prigionia; il viaggio durò una settimana; eravamo sprangati dentro un vagone dove non c’era niente, con un secchio per i nostri bisogni, che ben presto si riempì; non c’era luce, non c’era acqua, c’eravamo solo noi con la nostra umanità dolente. […] Gli uomini pii si riunivano al centro del vagone pregavano e lodavano Dio; era un momento di tensione fortissima che ci teneva uniti, mentre altri uomini ci portavano a morire (Romero 2005).

Ma se il tema del viaggio e della preghiera è un elemento di concordanza tra i due racconti (quello operistico e quello storico), lo è altrettanto il tema della libertà interiore:

Quell’uomo alto, sempre elegantissimo, crudele sulle prigioniere inermi e buttò la divisa sul fosso, la sua pistola cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione fortissima di prenderla e sparargli. Io avevo odiato, avevo sofferto tanto, sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai di chinarmi, prendere la pistola e sparargli. Mi sembrava un giusto finale di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria dell’odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero molto più forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella pistola, e da quel momento sono stata libera (Romero 2005).

La forza del teatro verdiano risiede nella capacità di trasmettere un messaggio migliorativo nei confronti dello spettatore, in sintonia con l’auspicio espresso in quegli anni da Giuseppe Mazzini nella sua Filosofia della musica: «Queste poche pagine […] sono pei pochi che nell’Arte sentono il ministero, e intendono la immensa influenza che s’eserciterebbe per essa sulle società». Quella di Mazzini è un’arte fortemente legata non alle regole ma alla vita; un’arte che dalla utilità pratica, con lo scopo preciso di costruire una nuova coscienza della famiglia, della nazione e dell’umanità; l’opera lirica in questo senso è lo strumento migliore perché unisce l’elemento di verità del dramma storico con la potenza comunicativa della musica. E se da una parte la fiducia riposta in questa capacità migliorativa si scontra con la disillusione del Novecento, allo stesso tempo non potrà sfuggire il parallelismo tra la condizione di cattività del coro ebraico del Nabucco e il racconto di Liliana Segre, intriso anch’esso di rassegnazione e preghiera. Ma ancor più interessante è il concetto di pietà che unisce i personaggi verdiani, ognuno del suo sviluppo psicologico, con questa ulteriore testimonianza:

Mi ricordo una lunga fila che usciva dal carcere con le nostre poche cose urlavano parole d’incoraggiamento: “Dio vi benedica, Non avete fatto niente di male”. Furono straordinari gli altri detenuti comuni che ci vedevano dalle loro celle e ci lanciavano arance, biscotti, guanti, di tutto e noi uscimmo dal carcere con questo grande scoppio, bagno di umanità, furono gli ultimi uomini… poi incontrammo solo mostri. Saranno stati anche ladri e assassini, ma erano uomini che hanno provato pietà per noi (Romero 2005).

Per concludere, si è osservato come il 27 gennaio porti con sé una duplice ricorrenza: la morte di Verdi, la Giornata della Memoria. Abbiamo riscontrato come il contesto culturale o, per meglio dire, la mentalità di cui Verdi indirettamente risente è quella della costruzione di un teatro musicale volto non solo alla soddisfazione del piacere estetico, ma alla formazione di una coscienza civile: l’uomo è modificatore di se stesso, possiede un barlume di bontà che va soltanto scoperto ed alimentato. Benché dal coro del Va pensiero emerga un pessimismo apparentemente immutabile (gli ebrei non hanno alcun modo per modificare la loro posizione di esuli), Verdi (e il contesto culturale che rappresenta) crede in un possibile miglioramento dell’uomo, nella sua capacità di autocritica.

Rassegnazione e speranza, autocritica e compassione; rapportare queste coppie lessicali alla testimonianza di Liliana Segre genera attriti e collegamenti. Nel primo caso, è chiaro come la fiducia in un’umanità migliore sia chiaramente mal posta se si osservano generalmente i passaggi che sin qui ci hanno accompagnato: un popolo umiliato senza pudore, senza pietà, privato di qualsiasi affetto «con un’inumanità che non credevamo possibile al mondo». Ma allo stesso tempo è osservando i dettagli che si riscontrano possibili collegamenti: l’odio di Nabucodonosor si trasforma in pietà, così come l’invidia di Abigaille diviene pentimento; la rassegnazione del primo coro muta in riconciliazione tra popoli nell’ultimo. Non è forse il tutto paragonabile alla pietà raccontata dalla Segre? E non è un sentimento di pietà quello dei detenuti (ladri, omicidi, malfattori) che al passaggio dei deportati ebrei (si noti anche qui il raffronto con l’immagine degli esiliati del Nabucco) gridano «siete solo ebrei, non avete fatto nulla di male»? E non è, forse, un barlume di umanità quello che impedisce alla carcerata di uccidere il proprio carceriere?

Certamente, si ribadisce, non si ha alcuna pretesa di coniugare forzatamente momenti culturalmente e storicamente diversi, quanto di stimolare una riflessione sul rapporto tra il pensiero verdiano nel Nabucco e la testimonianza di Liliana Segre: se l’insieme delle tragedie del Novecento generano disillusione, disperdendo quel messaggio verdiano di pace e conciliazione tra popoli, è nelle vicende dei singoli, nei momenti di pietas individuale, che albergano barlumi di umanità e redenzione. E senza memoria, tutto è vano.

Bibliografia

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Sitografia

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https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/documenti/ DEP/numeri/n2/11-Testimonianza_Segre.pdf