Pro Memoria Pilati

Tradizione che diventa ispirazione. La memoria è avere ciò che in realtà non abbiamo più, è una grande opportunità. Ricorderemo Mario Pilati, compositore partenopeo che fa della tradizione un grande strumento di innovazione e, nonostante dopo la morte sia calato il buio sul suo nome, lo ricordiamo grazie all’impegno della figlia Laura Esposito Pilati che ha colto La grande opportunità attuando un processo di vera e propria riscoperta.

di Imma Franzese 

 

Se è vero che il tempo porta via tutte le cose e che logora gradualmente le testimonianze materiali delle vicende umane, è altrettanto vero che l’uomo ha un grande potere dinanzi a tale forza naturale: la memoria. Il concetto di memoria, infatti, ci permette di mantenere una connessione continua con il passato senza però negare la possibilità di vivere nel presente e di avere uno sguardo proiettato verso il futuro; viene a crearsi così una nuova visione – globale – che permette all’uomo di arricchirsi continuamente, di valorizzare le azioni umane del passato, di custodire tale patrimonio e di procedere verso ciò che non è ancora memoria, ma che ben presto lo diverrà. Non è nostra intenzione proporre una riflessione sulla memoria o sulla sua importanza, quanto vedere come essa possa influenzare l’uomo nel processo creativo-compositivo e in che modo aiuti noi oggi nel raccontarlo. Faremo riferimento al compositore Mario Pilati (1903- 1938) che visse la sua breve esistenza principalmente a Napoli, la città dov’era nato. L’immediato riferimento all’origine partenopea del musicista non costituisce un semplice dato biografico, ma si inserisce in un più ampio intento di collocare il giovane Pilati in un ambiente, dai bei colori caldi e dalle belle melodie, che lui stesso rievocava e descriveva nelle sue composizioni. Egli fece della memoria, e di quella visione globale di cui abbiamo parlato precedentemente, una costante di vita ben sintetizzata in una sua citazione: «Reimpossessarsi del passato e richiamare ad esso il presente». La poliedricità del compositore partenopeo è da ravvisarsi dunque nello sguardo verso il passato visto come fonte di ispirazione, pur non compromettendo un’evoluzione formale e stilistica. Ma in che modo egli riuscì ad attuare tale intento? Attraverso la valorizzazione della tradizione. Per tradizione intendiamo tutte le forme, i motivi, le pratiche – musicali e non – che si sono affermate nella storia a livello popolare, che erano note ai molti e che avevano una determinata collocazione temporale-spaziale. Assistiamo, con Pilati, alla tradizione che diventa ispirazione continua, mai superflua e mai banale, ma sempre di oro forgiata fino a rendere i suoi lavori dei prodotti pregiati. Il riferimento all’elemento folklorico viene inserito quasi sempre in maniera esplicita, come si può dedurre da un titolo che evoca forme popolari locali (es. Tammurriata, Tarantella, Echi di Napoli) o da un testo che riprende poesie di autori napoletani, insomma molto spesso l’inserimento del folklore appare palese, ma ci sono casi in cui esso si insinua tra figurazioni musicali rendendosi manifesto solo ad un attento ascolto o attraverso un’analisi della composizione. Il ricorso alla tradizione come ispirazione non era certo una novità pilatiana, fin dal medioevo e in particolar modo dopo la diffusione della stampa vennero a crearsi non pochi intrecci tra la musica colta e il folklore, ma perché il compositore colto si rivolge a queste fonti popolari? L’utilizzo di una musica caratterizzata folkloricamente era frequente già nell’Opera dell’Ottocento, infatti Julian Budden nel suo importante studio su Verdi si soffermò proprio sul rapporto tra l’opera e il folklore. Ovviamente parliamo di un diverso utilizzo di quest’ultimo, non inteso come un’espressione in cui riconoscersi o immedesimarsi, ma utilizzato con una certa curiosità dimostrata dall’alta borghesia nei confronti delle classi subalterne senza la creazione di un distacco netto e forzato. Nel passaggio tra l’Ottocento e il Novecento però ci furono molti cambiamenti che generarono, inevitabilmente, dei mutamenti sociali e accentuarono la distanza tra le classi, ma il governo – prima con il socialismo e poi in maniera più radicale con il primo fascismo – cercò di proporre una cultura popolare che fosse propria di tutti, aperta cioè a qualsiasi classe sociale. Man mano il regime mostrò un interesse particolare per la cultura promuovendo un’integrazione tra tradizione e modernità e una nuova produzione musicale italiana che sostituisse in toto la musica straniera; tale interesse, però, non fu del tutto autentico in quanto il principale obiettivo era il raggiungimento di fini politico-propagandistici. Questo fu il contesto storico-politico in cui visse Pilati, ma come egli reagì a tutto ciò? Il richiamo all’elemento folklorico o ad una più generale memoria popolare è dunque da ricondursi ad una tendenza politica, ad una scelta di tipo personale (per cui fa risuonare l’anima napoletana a cui è legato) o ad una richiesta della società che si riconosce nella sua musica?

Le prime composizioni pilatiane su materiale folklorico partenopeo furono Tre canti napoletani la cui data di composizione è davvero indicativa, risalgono al biennio 1925-1926, anni in cui la tendenza di cui abbiamo parlato precedentemente si afferma e si sviluppa su due linee direttrici: adesione politica o apolitica. L’atteggiamento del compositore napoletano va al di là di qualsiasi intenzione politica, opta per il disimpegno «come contributo all’italianità senza coinvolgimenti politici né prese di posizione forti» (Rostagno2007), dunque la sua scelta di utilizzare etno-fonti sicuramente non mostra un’adesione al regime. Eliminata la componente politica il nostro campo si restringe, e dunque resta da capire se la sua fu un’esigenza personale di gusto e di appartenenza o una risposta all’esigenza collettiva. Se la risposta fosse quest’ultima, dovremmo dimostrare che il giovane compositore era conosciuto non solo dai cultori musicali, ma che avesse un riscontro generale da parte di quel popolo che lo ispirava; che Pilati fosse conosciuto non ci sono dubbi, il suo nome oltre che su “Gazzetta Musicale di Napoli”, “Musica d’oggi”, “Rivista nazionale di musica”, “Il Pianoforte” e periodici di interesse prettamente musicale, comparve anche su periodici quali “La Stampa”, “La nuova Italia”, “L’illustrazione italiana”, “Il Mattino”, “Corriere meridionale”. La maggior parte delle recensioni sono positive e fanno emergere la versatilità del giovane Pilati e il consenso da parte del pubblico. Nonostante ciò, sembra che il suo fosse un interesse del tutto naturale, spontaneo e che la maggior parte delle sue composizioni fossero il risultato di un’ispirazione melodica autentica, emotivamente caratterizzata, inserita in un contesto ben strutturato ed organizzato. Sebbene l’interesse pilatiano fosse squisitamente italiano – egli esaltava nelle sue composizioni la scuola napoletana e l’ispirazione propriamente italiana – non seguì i pregiudizi nazionalistici, ma anzi, da buon critico e musicista, riconobbe la grandezza di alcuni compositori stranieri e l’importanza delle rispettive tradizioni musicali. La superiorità di Pilati sta nella sua valutazione della musica senza pregiudizi, avulsa ed estranea a concetti di razza, luogo e tempo. Molto probabilmente il compositore napoletano, pur essendo consapevole di tutto il contesto storico che lo circondava, decise di mantenere un certo distacco e una propria autonomia che gli permisero, seppur per poco tempo, di perseguire il suo intento creando una musica che non fosse aderente a nessuna corrente musicale in particolare, ma che anzi le inglobasse tutte come si può chiaramente evincere dalle sue parole: «La via maestra non può essere che quella dove le tradizioni non si escludano, ma si assommino e vengano riproducendo incessantemente, assumendo gli aspetti più vari di un unico volto. Vecchi o Banchieri non escludono Palestrina, Rossini non esclude Bellini, il Falstaff non esclude la Traviata, il classico non il romantico» (Pilati1929). Intorno agli anni Trenta Pilati decise di dedicarsi musicalmente alla sua Napoli, nacque infatti Piedigrotta – dal chiaro riferimento partenopeo – opera incompiuta in dialetto napoletano la cui stesura del testo fu affidata a Carlo Altucci. L’obiettivo principale del compositore era creare un’azione esclusivamente popolare in cui si sentisse la voce viva di Napoli, senza riferimenti borghesi. Potremmo affermare che Pilati aderisce, in due momenti diversi della sua vita, a due tendenze: modernismo e populismo. In una prima fase – che potremmo far partire nel 1925 – egli mostra un interesse per la novità e si inserisce in un atteggiamento propriamente collettivo pur non uniformandosi ad esso, si pone infatti l’obiettivo di attuare, attraverso l’assimilazione dell’elemento folklorico nelle sue composizioni, un rinnovamento linguistico; in una seconda fase – che coincide con gli anni di Piedigrotta – sembrerebbe esserci una svolta più populista per cui il compositore decide di riportare nella sua opera l’autenticità del popolo napoletano accompagnato da una musica che rispetti i colori e il sentimento partenopeo. Egli risentiva delle voci native della città, degli antichi vocaboli napoletani, della cadenza di questa lingua, dei colori dei suoi orizzonti, delle armonie colte che si sentivano per strada, del ritmo tipico dell’anima meridionale e rendeva tutto ciò tangibile anche all’interno della sua musica sine vocis. Sappiamo perfettamente che la musica è più potente della parola e Pilati con le sue composizioni strumentali ce ne dà una chiara conferma. Il giovane compositore napoletano, in primis come musicista e poi come uomo legato alle proprie radici, fa risuonare la Napoli dai bei colori e dalle dolci melodie all’interno di una musica colta, mai banale, concepita attraverso l’uso della ragione musicale. Se volessimo collocare la produzione di Pilati in uno specifico settore stilistico noteremmo che di anno in anno il compositore ha fatto in modo da non rimanere relegato entro un campo stilistico circoscritto, infatti – quasi per confondere la critica e l’uditorio – presentava gli innumerevoli modi in cui passato e presente potessero convivere pur non rientrando nello stesso stile compositivo. Nonostante la giovane età egli ebbe modo di distinguersi come “il più battagliero, il più audace” (Longo1939), nelle vesti di un allievo modello, colto, maturo e dal grande talento compositivo tanto da essere considerato – fin dal periodo degli studi in conservatorio – il più giovane ed affermato compositore del tempo. Negli anni Pilati riuscì a raggiungere una certa notorietà che si consolidò ancor di più con il premio Coolidge nel 1927 – precedentemente assegnato a compositori importanti tra i quali: Strawinsky, Schoenberg, Ravel, Hindemith, e per l’Italia Pizzetti, Malipiero, Respighi, Alfano, Castelnuovo-Tedesco, Casella – assegnato alla sua Sonata per flauto e pianoforte. Le sue composizioni iniziarono a risuonare in tutto il territorio italiano e non solo, riportiamo a tal proposito le parole del Compositore in una lettera inviata all’allievo Gavazzeni nel Novembre 1930: «Ha con Lei il mio “Quintetto”? […] In questi giorni ho saputo che è stato compreso fra i lavori italiani proposti (quindi non ancora definitivamente fissati) per il prossimo festival di Oxford. Ho saputo pure che a Chicago è stata eseguita la mia “Sonata” per flauto e che a Filadelfia eseguiranno la “Suite”. Ho avuto poi invito dalla Scozia per un concerto di musica da camera interamente di musiche mie. Come vede, la Società delle Nazioni comincia a occuparsi seriamente di me.» (EspositoPilati2007). Ci si rende conto, dunque, che Pilati fosse un volto ben noto e che la sua musica, fra le composizioni del tempo, occupasse realmente un posto d’onore e riscontrasse il consenso del mondo musicale e del pubblico. Nessuno, fra quelli che lo conobbero, avrebbe mai immaginato che il suo nome potesse essere ben presto dimenticato: la scomparsa prematura di Pilati, nel 1938, coincise con un periodo di grandi sconvolgimenti politici e sociali che comportarono molti disordini anche nel mondo dell’arte relegando il giovane Compositore e la sua musica in un immeritato oblio. Se abbiamo oggi l’onore di poter raccontare, studiare e conoscere Pilati come uno dei musicisti più importanti dello scenario primo-novecentesco, dobbiamo ringraziare Laura Esposito Pilati, la quale con determinazione e dedizione ha attuato negli anni una vera e proprio riscoperta del padre Mario.

In apertura dell’articolo abbiamo affermato il nostro duplice intento: capire come la memoria possa aver influenzato Pilati nel processo creativo-compositivo e come ha aiutato noi a parlarne oggi. Certo, si tratta di due concetti completamente diversi ma pur sempre riconducibili allo stesso termine. La memoria di cui abbiamo parlato per Pilati è una memoria del passato e la voglia di valorizzarne il patrimonio; ci siamo focalizzati su una forma particolare di memoria: la tradizione, che per essere definita tale deve avere una propria storia, deve essere tramandata, deve far si che ci sia una certa costanza nel tempo e che quei gesti, quelle parole, quei suoni restino sempre vivi nelle menti e nei cuori. Per rispondere invece al secondo intento faremo riferimento alla memoria intesa come ricordo di un uomo e della sua esperienza di vita, il che inevitabilmente ci arricchisce e ci dà la possibilità oggi di parlarne facendo in modo che possa diventare memoria anche per altri.

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