Il canto degli italiani: un atto di resistenza

di Daniele Armellino

 

Stesso cielo, 2014 – Andrea Mete

 

Sono poche le Democrazie la cui gestazione e nascita non siano state accompagnate da una Resistenza. Armata o pacifica che fosse, poco cambia nella sostanza.

Si resiste contro un oppressore, si resiste contro un invasore, si resiste, di solito in pochi o comunque non tantissimi, per il bene di tanti o addirittura di tutti.

La resistenza non esiste senza la speranza. Ecco, speranza e resistenza a mio avviso non possono che andare a braccetto, altrimenti delle due l’una: o si porta avanti una resistenza inefficace e perdente o si stanno coltivando false speranze.

E non c’è resistenza senza un canto, senza una musica che gli faccia da colonna sonora. Nei giorni bui, a volte, o si canta o si muore.

L’esempio più abusato che potrei farvi è quello di Bella ciao, canto partigiano della resistenza antifascista che ancora oggi viene utilizzato da chi si sente oppresso, da chi resiste.

Tuttavia, questa volta vorrei accennarvi brevemente ad altro, ad un’altra epoca, ad un altro canto.

Siamo nel 1847, il Vecchio Continente è considerato dalle cancellerie europee come una polveriera pronta a esplodere. La connotazione negativa dell’immagine della polveriera dovrebbe farci riflettere. Perché si potrebbe invece affermare che in quei decenni l’Europa in realtà sarà un unico grande fermento politico e culturale.

Una nuova generazione di giovani, uomini e donne, stava prendendo consapevolezza di se stessa, voleva un destino differente, vedeva un avvenire nuovo dinnanzi a sé: libertà, uguaglianza, giustizia sociale e l’idea di Patria a corollario di tutto. Non un luogo chiuso, impermeabile, una fortezza della solitudine nella quale non fare entrare nessuno, così come la vedono e la pensano oggi in tanti; bensì il tempio nuovo dell’emancipazione dei popoli.

Tra questi giovani patrioti europei che combattevano gli uni per gli altri e resistevano di fronte all’urto pesante di potenze conservatrici e reazionarie, brilla la stella di Goffredo Mameli.

Giovane patriota genovese, seguace di Giuseppe Mazzini, l’8 settembre del 1847, durante i primi moti di Genova, egli comporrà il testo di quello che ufficialmente ha ancora oggi il titolo di Canto degli italiani, il nostro inno nazionale.

Gli inni, se ci fate caso, sono molto spesso canti resistenziali che poi vengono istituzionalizzati.

Così è per l’inno francese, la Marsigliese, così anche per quello greco, così per l’Inno di Mameli, almeno dal 1946.

La vita di Mameli è una di quelle tipiche esperienze brevi ma intense.

Morirà a ventun’anni, dopo aver preso parte alle Cinque Giornate di Milano del ’48, resistendo contro i francesi che stavano assediando Roma nel 1849, nei mesi appassionati e romantici della Repubblica Romana.

Tra le vie della Città Eterna, sulle Mura Gianicolensi dove più forte e violenta era la pressione dei soldati d’oltralpe, risuonava tra tutti un canto in sei strofe che faceva così:

Raccolgaci un’unica

Bandiera, una speme:

Di fonderci insieme

Già l’ora suonò.

Era la speranza di chi sa di aver perso una guerra e nondimeno è consapevole, è certo che alcune idee non camminano semplicemente sulle gambe di un uomo, fosse anche un eroe, ma si spandono nel corso delle generazioni come semi al vento, mettendo radici anche lì dove sembra che il terreno sia più sterile e inospitale alla vita.

Non è il tempo della vita di un uomo, è quello delle generazioni, scandito dal canto, il tempo della resistenza.