Luci e ombre della rinascita: il revival della musica e della arti cambogiane dopo gli anni del genocidio

“I wonder where the gods go now that their homes have been destroyed”
(Loung Ung, First They Killed my Father)

di Ilaria Meloni

Ph. Ilaria Meloni 

Introduzione

Riflettendo sul tema della “rinascita” e scorrendo tra gli archivi della mente che racchiudono le mie esperienze di vita e ricerca nel sud-est asiatico, non ho potuto fare a meno di pensare alla Cambogia, apparsa tra i miei pensieri come un’epifania joyciana. Nell’estate 2019, durante un lungo sopralluogo dal nord al sud della Cambogia, passando per alcuni centri nevralgici come Phnom Penh e Siem Reap, ho avuto modo di imbattermi in alcuni “luoghi della memoria” (per riprendere un tema affrontato su Ecce Musica in uno dei mesi scorsi) ed incontrare, virtualmente e fisicamente, alcuni degli artisti che si occupano oggigiorno di riportare alcune delle più importanti arti cambogiane agli antichi splendori.

Tra i paesi del sud-est asiatico continentale, la Cambogia si pone forse tra quelli meno indagati dagli studi etnomusicologici (tra quelli più rilevanti Giuriati 2003 e Morotti 2010) ed in parte ciò è dovuto al triste destino incontrato dalla musica e dalle arti cambogiane in un determinato periodo storico, ovvero gli anni dal 1975 al 1979. Si tratta di anni di genocidio umano e culturale dai quali la Cambogia sta man mano rinascendo, anche grazie al supporto di organizzazioni internazionali ed istituzioni locali, tra cui non manca l’iniziativa di qualche privato, artista, maestro e musicista con lo spirito creativo e voglia di far risorgere la Cambogia ed il suo passato dall’oblio.

Nell’articolo vorrei tentare di rendere un’idea del grande contributo che queste persone hanno dato e stanno dando alla rinascita della musica e delle arti cambogiane, presentando alcuni casi a mio avviso significativi. Prima di discutere gli esempi che ho deciso portare all’attenzione, ritengo necessario fornire un excursus circa le vicende storiche che hanno portato allo sterminio culturale.

Spero quindi, con questo mio piccolo contributo a stretto scopo divulgativo, di dare il mio personale supporto e sostegno alla rinascita non solo delle forme artistiche in sé, ma anche la consapevolezza dell’orrore di un passato forse troppo spesso dimenticato perché relegato in un angolo di mondo di cui poco arriva alla nostra attenzione, in uno dei paesi che più ho amato durante i miei viaggi di ricerca. Ho deciso, tra l’altro, di farlo proprio in prossimità del giorno 17 aprile, data simbolica per molti cambogiani.

Premessa: i sanguinosi anni di Pol Pot

Nel giorno 17 aprile dell’anno 1975, gli uomini del partito comunista dei Khmer Rouge (o Khmer Rossi) facevano irruzione nella capitale cambogiana, Phnom Penh, per impossessarsi della città e stabilire la Kampuchea Democratica, la “Nuova Cambogia”, inaugurando un nuovo inizio definito simbolicamente da alcuni studiosi come l’“Anno Zero” (Clayton 1998: 1). Il regime dei Khmer Rouge, durato tre anni, otto mesi e venti giorni, ha determinato una delle più sanguinose e buie parentesi nella storia dell’umanità, provocando milioni di vittime e gettando nell’oblio anni di gloriose tradizioni culturali del paese.

Durante questi anni, il leader del partito, Pol Pot, ha isolato la Cambogia da ogni contatto esterno, forzando gli abitanti dei centri urbani a trasferirsi in aree rurali e a lavorare come braccianti in veri e propri campi di lavoro, a cui pochi sono riusciti a sopravvivere e a raccontare la propria storia. Una di loro, l’autrice Loung Ung, racconta questa esperienza straziante vissuta dai suoi occhi di bambina appartenente ad una famiglia della classe borghese e intellettuale, nel libro autobiografico intitolato First they killed my father:

The Khmer Rouge lied. They have won the war, and we cannot go back. You must stop thinking we can go back. You have to forget Phnom Penh.” Pa’ [my father] has never spoken so bluntly to me before, and slowly the reality of what he says sinks in. My body trembles with fear and disbelief. I am never going home. I will never see Phnom Penh again, drive in our car, ride a cyclo with Ma to the markets, buy food from the carts. All of that is gone (2000: 40).

Molte delle persone sospettate di simpatizzare con il vecchio regime furono perseguitate, torturate e assassinate. La maggior parte di loro erano intellettuali o dipendenti governativi come il padre di Loung Ung, oltre a studenti, dottori, ingegneri, artisti e chiunque avesse ricevuto una qualche forma di istruzione, parlasse lingue straniere o avesse origini non cambogiane o legami con l’estero. Ogni forma di arte, cultura e religione venne spazzata via da un’ondata di odio e repressione. Gli ordini monastici furono aboliti, le scuole abbattute o convertite in centri di detenzione, tortura e lavoro forzato.

Ho avuto modo di visitare alcune delle ex aule scolastiche convertite a centri di tortura e detenzione in quello che ora è il Museo del Genocidio, il Tuol Sleng. È un percorso guidato da alcune foto e racconti di alcune delle vicende più note dell’epoca, come la tragedia di Bophana e del suo consorte Ly Sitha, torturati e uccisi dalle milizie Khmer dopo anni di lotte e sofferenze, raccontata nel film documentario Bophana: une tragédie cambodgienne (1996). I cambogiani sono ancora molto sensibili sull’argomento e la loro personalità gentile e cordiale (che accomuna molte genti del sud-est asiatico) è stata scalfita e indurita da una ferita insita nell’animo di chi ha vissuto la tragedia direttamente o indirettamente.

Figura 1. Il Museo del Genocidio, Tuol Sleng, 13 agosto 2019 (foto di Ilaria Meloni).

Anche il memoriale di Choeung Ek, un ex frutteto e cimitero cinese rinominato Killing Fields (“Campi dello Sterminio”) costituisce una tappa obbligata per un visitatore contemporaneo che voglia tentare di comprendere gli effetti che gli anni di Pol Pot hanno lasciato sul popolo cambogiano. Il percorso guidato tra campi di detenzione e fosse comuni, lascia nel visitatore un vuoto nell’anima che è difficile colmare anche una volta tornati nel vibrante centro cittadino, tra variopinti venditori ambulanti e passeggiate sul lungofiume di fronte al maestoso palazzo reale.

Il numero di vittime stimato tra la popolazione cambogiana tra il 1975 e l 1979 va dalle 750.000 ai 3,331,678 milioni secondo dati che purtroppo rimane difficile censire con sicurezza (Clayton 1998: 2). I corpi miliziani dei Khmer Rouge erano maggiormente composti da persone di umili origini, molti ancora in tenera età, la cui mancanza di istruzione e l’indottrinamento ne faceva degli spietati esecutori manovrati dal regime, ciecamente fedeli all’Angkar, descritto con chiarezza da Loung Ung:

Angkar, which means “the organization.” Pa’ [my father] says the Angkar is the new government of Cambodia. He tells us that in the past, Prince Sihanouk ruled Cambodia as a monarch. Then in 1970, unhappy with the Prince’s government, General Lon Nol, deposed him in a military coup. The Lon Nol democratic government has been fighting a civil war with the Communist Khmer Rouge ever since. Now the Khmer Rouge has won the war and its government is called “the Angkar” (2000: 31).

L’Angkar lavorava alacremente per privare le persone di ogni bene che potesse simboleggiare un attaccamento al consumismo e alla cultura occidentale: partendo da beni materiali come elettrodomestici, orologi, vestiti, libri e beni personali fino alla dignità individuale. L’individuo era abolito e annientato in favore della collettività. Chandler osserva, riprendendo una metafora da Mao, che queste persone erano viste come delle “pagine bianche” sulle quali era facile incidere gli insegnamenti rivoluzionari (2007: 2011).

La visione “rivoluzionaria” di Pol Pot, leader dei Khmer Rossi, era quella di annientare ogni traccia della società capitalista e riportare la Cambogia ad una vita comunitaria in cui la classe contadina e operaia era al potere, secondo un’inversione della gerarchia di classe. Quinn sostiene che lo scopo della “rivoluzione cambogiana”, sulla scia di quella cinese, era quella di distruggere la vecchia società e le sue infrastrutture sociali, politiche, economiche e culturali di modo da impedirne la rinascita in modo più assoluto (1989: 180). La realtà dei fatti si risolse invece in uccisioni di massa indiscriminate ed ingiustificate:

The killings have started, Pa’ [my father] tells my older brothers as we walk back down the mountain to our rendezvous area. The Khmer Rouge are executing people perceived to be a threat against the Angkar. This new country has no law or order. City people are killed for no reason. Anyone can be viewed as a threat to the Angkar—former civil servants, monks, doctors, nurses, artists, teachers, students – even people who wear glasses, as the soldiers view this as a sign of intelligence. Anyone the Khmer Rouge believes has the power to lead a rebellion will be killed (2000: 54).

L’educazione era vista come uno dei maggiori pericoli e dunque lo scopo del regime era quello di demolirla per poi ricostruirla secondo i nuovi ideali (Clayton 1998: 6). Prima dell’ascesa dei Khmer Rouge al potere, il principe Norodom Sihanouk aveva notevolmente incrementato il sistema di istruzione tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, anche con l’obiettivo di mantenere e solidificare l’indipendenza cambogiana dagli anni del colonialismo francese. Tutti i progressi ottenuti da Sihanouk vennero distrutti ideologicamente e fattualmente: intere librerie furono rase al suolo ed incendiate con tutto il loro contenuto. Scuole e università vennero convertite in centri di lavoro e detenzione (come testimoniato dal Museo del Genocidio, Chandler 1992) e docenti, ricercatori, studiosi ed educatori furono uccisi.

Una volta raso al suolo il vecchio sistema d’istruzione, Pol Pot poté così costruire un nuovo sistema, le cui direzioni erano diametralmente opposte a quelle del principe. Le nuove politiche educative furono dettate dal Four Year Plan to Build Socialism an All Fields delineato nel 1976 (Clayton 1998).  I principali centri scolastici non furono più scuole e università ma fabbriche, cooperative agricole e centri rivoluzionari legati al regime. In molti casi, l’educazione o ‘rieducazione’ consisteva semplicemente nell’addestramento militare. Gran parte dell’insegnamento musicale era dedicato all’intonazione di canti patriottici, considerati un buono strumento per la costruzione di una mentalità socialista e rivoluzionaria. Ogni forma artistica, culturale e di libero pensiero dovette soccombere al genocidio e cadere nell’oblio per quasi quattro lunghi anni.

Il 7 gennaio 1979, l’invasione dell’esercito vietnamita sancì la fine della Kampuchea Democratica e dell’incubo che ormai durava da più di tre anni: «Suddenly it seems as though the whole sky has opened up and pours down the tears of every Cambodian […]» scrive Loung Ung (2000: 116). Da allora il paese ha cominciato una graduale rinascita sotto diversi punti di vista. Ancora oggi, dopo anni di sforzi volti alla ricostruzione sociale, politica, economica, umana e culturale, la Cambogia sta lentamente ricominciando a rinascere, a progredire e a guardare al futuro. Questo faticoso cammino passa anche attraverso il recupero delle antiche tradizioni artistiche e musicali di cui molte fonti sono purtroppo andate perdute durante gli anni di distruzione. La memoria storica delle arti più popolari, come la danza e la musica, era sempre stata sempre affidata alla trasmissione orale di generazione in generazione, da maestro a discepolo. L’uccisione di molti artisti e maestri ha pertanto inferto un duro colpo al tramandamento del sapere.

Nonostante queste difficoltà, il recupero della tradizione culturale cambogiana è ricominciato. Il mondo del teatro e della musica cambogiana classica e moderna sarebbe scomparso se non fosse stato per il contributo di alcuni grandi maestri che, sopravvissuti al genocidio, sfuggendo alla morte e lottando contro la povertà, hanno impegnato la loro vita a risollevare le arti performative. Oggi la Cambogia si trova di fronte ad una sfida: recuperare le radici della propria cultura, detenute dai vecchi artisti sopravvissuti allo sterminio, per trasmetterle alle nuove generazioni. Sfida difficile in quanto rimane una quantità esigua di registrazioni audio e video.

Oltretutto, il numero di pubblicazioni dedicate ad investigare alcune delle più antiche forme artistiche e musicali rimane ancora esiguo. L’UNESCO, in collaborazione con il Ministero della Cultura e delle Belle Arti, si è attivato solo di recente in questa direzione. Si noti inoltre, che questi lunghi anni di guerre e di silenzio non hanno sicuramente favorito la conoscenza nel mondo di questo enorme patrimonio culturale e troppo spesso l’immagine della Cambogia all’estero viene associato ai crimini di Pol Pot trascurandone aspetti culturali di notevole rilievo.

Ma cosa è rimasto della memoria artistica di quel tempo? Oltre alle testimonianze di tipo più accademico, un meraviglioso documentario intitolato Don’t think we have forgotten costituisce un buon esempio di come la rinascita possa passare attraverso la documentazione audio-visiva (che in questo caso diviene forma d’arte essa stessa) e fare udire le voci dei superstiti, oltre che far risuonare brani musicali di artisti le cui vite sono state stroncate negli anni del genocidio.

“Non pensare che abbiamo dimenticato”: si riaccendono le ‘luci’ del rock cambogiano

Il cineasta statunitense John Pirozzi è uno dei grandi protagonisti della riscoperta (e dunque in un certo senso della rinascita) di una parte di quella musica cambogiana che era andata perduta durante gli anni del genocidio. Si tratta, nello specifico, della cultura rock fiorita tra gli anni ’50 e’60 che ha visto emergere star come Sinn Sisamouth (1935 – 1975/79), Ros Serey Sothea (1946 – 1975/79), Pen Ran (1944 – 1975/79), Huoy Meas (1946 – 1975/79) e Sieng Vanthy (1951 – 2009). Il titolo, “Don’t think I’ve forgotten”, rimanda al titolo di una celebre canzone di Sinn Sisamouth, inclusa nel CD con la colonna sonora del film-documentario.

Figura 2. Don’t thik i’ve forgotten (CD e DVD) (foto di Ilaria Meloni).

Nel booklet che accompagna il CD con le musiche utilizzate nella sua opera filmografica, Pirozzi dichiara:

[…] It was also apparent that an incredibly rich and diverse music scene was flourishing before it vanished under the Khmer Rouge. I knew how important it was to preserve this music in the documentary – choosing which songs to use in the film, while daunting, became one of the true joys of the filmmaking process (2015).

Le scelte di Pirozzi di rivelano senz’altro azzeccate, non solo per quanto riguarda la musica ma anche nella progressione narrativa. Il film si apre con le parole della cantante superstite Sieng Vanthy:

Quando eravamo giovani amavamo essere moderni. Intorno al Mercato Centrale [di Phnom Penh] si raccoglievano molte persone sofisticate vestite in modo bellissimo. Poi, Pol Pot prese Phnom Penh nel 1975. Io ero una cantante: tutti furono costretti a lasciare la città. Cantanti e musicisti furono dispersi. Dopo Pol Pot, alcuni tornarono a Phnom Penh. Quelli che non tornarono furono considerati morti (in Pirozzi 2014).

Una sequenza di teatro delle ombre chiude questi primi fotogrammi e, sul sottofondo di un primo assaggio del rock cambogiano, il regista mostra alcune sequenze delle arti scenico-musicali tradizionali che affollavano le vie di Phnom Penh durante gli anni ’50 e ’60, intervallati da alcuni bassorilievi dei templi di Angkor, prime testimonianze delle prassi musicali del popolo Khmer.

Il primo dei tredici capitoli in cui è diviso il documentario si incentra proprio sugli anni gloriosi che hanno visto la Cambogia divenire indipendente dal colonialismo francese e progredire verso una crescente modernizzazione e importazione di alcuni modelli culturali occidentali, tra cui proprio i generi musicali più diffusi in quegli anni. Si tratta degli anni del governo del principe Norodom Sihanouk, figura cardine nel documentario e nella stessa storia della Cambogia, sin dal 1941, anno in cui divenne regnante all’età di diciotto anni (Novak 2016: 512). Il principe stesso compare in un’intervista in cui afferma di appartenere ad una famiglia che ha sempre amato la musica, dal padre flautista e sassofonista alla madre, la regina Kossamak, all’epoca direttrice del balletto reale (Nut 2015), che lo hanno incoraggiato a divenire egli stesso musicista e a portare avanti delle politiche culturali che incoraggiassero gli artisti emergenti.

La forte inclinazione musicale del sovrano è confermata in un’altra intervista, questa al musicista Samley Hong, che afferma: «Quando ero un bambino ammiravo tanto il nostro re. Lui era solito cantare moltissime canzoni che mi emozionavano e mi tenevano compagnia. Un giorno avrei voluto divenire un cantante come lui» (in Pirozzi 2014). Il re Sihanouk era considerato un vero patrono delle arti, simbolo della rinascita e dell’emancipazione della Cambogia dopo l’ottenimento dell’indipendenza e della corsa al progresso e alla modernizzazione, con uno sguardo all’Occidente. I cantanti ed i musicisti cambogiani cominciarono a dare vita ad una nuova tradizione di popular music cambogiana mescolando elementi della musica tradizionale con quelli di generi provenienti da Francia, Sud-America ed in seguito dagli Stati Uniti.

Uno degli artisti di spicco di quell’epoca, colui che il musicologo Sam Ang Sam definisce il “padre della popular music cambogiana” (in Pirozzi 2014), è Sinn Sisamouth. Egli fu un pioniere per gli artisti della sua generazione che si volgevano alla scoperta della “musica moderna”. Testimoni raccontano di come, al tempo in cui non vi era ancora una diffusione capillare della radio nelle case dei cittadini, grandi folle si radunassero di fronte alla stazione radio di Phnom Penh per ascoltare le sue canzoni dagli altoparlanti. Divenne così celebre che la regina Kossamak lo invitò a corte a lavorare per il Royal Ballet (Nut 2015). Fu lì che imparò in canto tradizionale che influenzò altamente la sua musica.

Un’altra stella luminosa della musica cambogiana fu senz’altro la giovane cantante Ros Serey Sothea. Nata in un villaggio in un’area rurale, Ros si trasferisce a Phnom Penh all’età i diciassette anni e si fa subito notare per la sua voce straordinaria, ottenendo un ingaggio alla Radio Nazionale. Lì incontra Sinn Sisamouth e nasce una fruttuosa collaborazione che fa diventare la voce delle due star “l’anima della musica cambogiana” (Pirozzi 2014). Cominciarono ben presto a sorgere case discografiche e negozi di dischi in cui si vendevano, accanto ai musicisti cambogiani, gli album di Tino Rossi, Charles Trevet, Edit Piaf, Sylvie Vartan, Johnny Hallyday, musica afro-cubana, rock’n’roll e cha cha cha. Oltre a singoli cantanti e musicisti, iniziarono a sorgere le guitar band, come i Baskey Cham Krong (che si ispiravano ai The Shadow e a Cliff Richard sia musicalmente che a livello di immagine) e i Drakkar. I Rock’n’roll club rimanevano aperti fino alle due del mattino e gli artisti erano soliti incontrarsi dopo le lunghe nottate per mangiare pudding di riso nei dintorni del Mercato Centrale. Tra gli anni ’50 e ’60 la città di Phnom Penh era divenuta “la perla dell’Asia” e l’assenza della musica non era concepita (Pirozzi 2014).

Nel frattempo, nel vicino Vietnam imperversava la guerra. Il principe Sihanouk continuava a mantenersi neutrale e a far progredire il paese. Con la presenza americana nel sud-est asiatico, nuovi generi musicali cominciarono a circolare ed arrivarono ben presto in Cambogia, dove le canzoni straniere venivano suonate con testi in lingua Khmer (una prassi presente in realtà in molti paesi sud-est asiatici, in cui spesso non vi sono preoccupazioni di copyright). Tuttavia, verso la fine degli anni ’60, comincia a crescere la preoccupazione che la guerra in Vietnam porti conseguenze spiacevoli per la Cambogia e il paese si divide tra interventisti e chi appoggia la posizione neutrale del re Sihanouk. È qui che i Khmer Rossi cominciano la loro propaganda partendo dai centri rurali, schierandosi a favore della guerra.

Il 18 marzo del 1970 Sihanouk viene deposto e la Cambogia entra in una nuova era politica con il nuovo governo capitanato dal generale Lol Non. Nel frattempo la cultura americana si era disseminata ovunque in Cambogia e non era vista di buon occhio da molti conservatori, soprattutto per quel che riguardava la cultura hippie e l’hard rock. Questo era simboleggiato da star come la cantante Pen Ran, che contravveniva ogni rimando alla raffinata idea di donna cambogiana con i suoi movimenti di danza sciolti e i suoi brani provocatori, come “There’s nothing to be ashamed”.

Durante gli anni ’70 molti musicisti iniziano ad arruolarsi nell’esercito per evitare l’arresto e i canti d’amore si trasformano in canti nazionalisti. La Radio Nazionale bandisce i brani degli anni ’60 e richiede ai musicisti nuove canzoni a tema patriottico. Il bombardamento americano su Phnom Penh nel 1973 sancisce definitivamente la fine dell’epoca d’oro e l’inizio della rapida discesa della storia cambogiana. I Khmer Rouge acquistano sempre più consensi dal popolo impaurito dell’invasione di nazioni straniere e nel 1975 attuano il loro colpo di stato.

L’esodo da Phnom Penh è fatale per molti musicisti, alcuni dei quali sono dati per dispersi o vengono uccisi in circostanze misteriose, molto spesso in date non rintracciabili. Alcune delle testimonianze dei musicisti superstiti nel documentario sono significative:

Ho marciato dalla città fino a Battambang [area rurale fuori Phnom Penh]. Le mie condizioni erano terribili. Non avevo assolutamente niente, ci lavavamo nella stessa acqua del bestiame, facevamo il bagno nei crateri lasciati dalle bombe B-52. Vivevamo come semplici contadini, come schiavi. Le persone riconoscevano che ero un cantante e mi dicevano: “Non dire niente”. Coprivo la mia testa con una sciarpa e mi chiedevo se sarei sopravvissuto (in Pirozzi, 2014).

Altri musicisti riuscirono invece a salvarsi proprio grazie alla loro abilità di suonare gli strumenti tradizionali che venivano utilizzati per riprodurre musica patriottica durante le riunioni del partito. La musica veniva spesso utilizzata per servire la politica e veniva soprattutto insegnata ai bambini che, in quanto “pagine bianche”, potevano memorizzare inni e cantarli da mattina a sera senza farsi domande. Ovviamente si trattava per lo più di musiche tradizionali, tutto ciò che era straniero era bandito. Le vecchie registrazioni e i supporti digitali (cassette, vinili) venivano distrutti. Si poteva venire uccisi per cantare la canzone sbagliata. Alcuni fingevano di non essere musicisti, Sieng Vanthy ad esempio rivela di essersi salvata la vita asserendo di essere una venditrice di banane.

Il 7 gennaio del 1979 i soldati vietnamiti liberarono la Cambogia dai Khmer Rouge e la popolazione fece ritorno alla capitale, Phnom Penh. Sieng Vanthy ricorda così questo momento:

Ero stata tra i primi a tornare a Phnom Penh. Cercavano degli artisti superstiti e mi riconobbero. Cantai per tutti alla radio. La gente aveva paura a fare ritorno a Phnom Penh ma quando gli altri artisti sopravvissuti udirono la mia voce si fidarono a tornare. Quelli che non tornarono furono considerati morti (in Pirozzi 2014).

Purtroppo, pochi artisti sopravvissero. Alcuni tra i più noti, come Sinn Sisamouth, Ros Serey Sothea e Pen Ran scomparvero per sempre. Altri si sono trasferiti all’estero e trovano difficoltoso tornare, anche perché hanno perso gran parte dei familiari e delle loro esistenze passate. Nonostante ciò che è stato perduto, oggi vi è una nuova spinta alla modernità e alla rinascita, che passa anche per un recupero di ciò che rimane della musica rock cambogiana degli anni ’50 e ’60. Tra gli artisti contemporanei, quelli che più hanno contribuito al revival delle voci di quegli anni sono i membri del gruppo Dengue Fever. La band è quella che per la prima volta dopo gli anni del genocidio si è esibita in un concerto di rock classico cambogiano, in occasione del Water Festival del 2005 (come testimonia un altro documentario di John Pirozzi degno di nota, del 2007, intitolato Sleepwalking through the Mekong).

I Dengue Fever sono un gruppo rock statunitense formato dai fratelli Zac e Ethan Holtzman (rispettivamente chitarra e voce e tastiere), Sennon Williams (basso), Paul Smith (percussioni), David Ralicke (ottoni) e la cantante cambogiana Chhom Nimol aggiuntasi alla band nel 2001. Chhom Nimol è nata in Cambogia da una famiglia di musicisti che le hanno insegnato l’arte del canto. Ha vissuto nei campi per rifugiati in Thailandia durante il regime dei Khmer Rouge e si è in seguito trasferita negli Stati Uniti dopo aver vinto il Cambodia’s Apsara Awards. Dopo aver cominciato a cantare nei locali di Little Phnom Penh a Long Beach (California) è stata scoperta dal gruppo e da allora ne è un elemento fondamentale.

La band è infatti volta alla riscoperta del khmer rock degli anni’60 e i loro brani uniscono le sonorità del rock psichedelico e dell’indie rock a quelle del rock classico cambogiano, con la maggior parte dei testi in Khmer e qualche testo in inglese. Accanto a revival di brani come “Chnam oun dop-pram muy (I’m 16)” di Ros Serey Sothea, troviamo brani nuovi come “Tiger phone call” in cui è descritta la dinamica delle chiamate intercontinentali tra New York e Phnom Penh. Un verso della canzone recita: «The first thing that I do/Is throw my arms around you/And never let go/And never let go». Si tratta decisamente di un ponte eretto a colmare una distanza di notevole portata, un intento in cui la band è riuscita appieno, gettando le braccia attorno a quella musica che una volta ritrovata è impossibile lasciare andare di nuovo.

Le ombre della rinascita: il destino di musica e arti tradizionali da Phnom Penh a Siem Reap

Non solo i generi musicali dell’epoca più moderna sono riusciti a tornare alla luce grazie all’opera di artisti contemporanei. Alcuni generi di teatro musicale e teatro delle ombre hanno visto una vera e propria rinascita grazie all’operato di artisti, enti e promotori, primi tra tutti i regnanti come la principessa Buppha Devi, pronipote della regina Kossomak (colei che al tempo invitò il cantante Sinn Sisamouth a far parte dell’orchestra reale). Educata nell’arte della danza sin da tenera età, all’età di sedici anni la principessa divenne la ballerina di punta del Royal Ballet ed eseguì la danza delle apsara (uno dei generi più conosciuti tra le arti tradizionali cambogiane) davanti al Generale de Gaulle alla Parìs Opera nel 1964 (Nut 2015). Dopo il colpo di stato del 1970, Buppha Devi lascò il paese e si stabilì a Parigi. Sin dal suo ritorno in Cambogia nel 1991, la principessa si è incessantemente dedicata alla rinascita del Royal Ballet. Essa è anche entrata a far parte dell’arena politica cambogiana e ha ottenuto una posizione che le permette di giocare un ruolo importante negli affari culturali.

Negli anni ’90, al ritorno della principessa, la situazione artistica era piuttosto precaria. Solo il 10% della troupe del Royal Ballet era sopravvissuta, archivi e costumi erano ridotti in cenere (Nut 2015). Ci volle più di un anno per collezionare memorie e ridare vita alle coreografie. Grazie ad una somma della Rockefeller Foundation, nel 1981, la troupe era riuscita a riportare in vita i vecchi repertori, anche se solo parzialmente. Sotto Buppha Devi il Royal Ballet fu proclamato patrimonio UNESCO, nel 2003. Da qui la principessa è stata sempre più coinvolta nel restauro di coreografie ed ha anche effettuato alcune modernizzazioni (come la riduzione della durata) per poter portare gli spettacoli in teatri internazionali.

Se guardiamo al di fuori delle mura del palazzo e ci spostiamo in realtà più marginali, troviamo tanti altri esempi, come quello di Sophal Kdib. Sophal vive a Siem Reap, la capitale culturale cambogiana, nei cui pressi sorge il meraviglioso complesso templare di Angkor Wat. Nel suo villaggio, situato nei pressi della strada che conduce all’aeroporto, Sophal ha aperto una scuola ed un laboratorio per marionettisti, musicisti, danzatori e intagliatori di marionette. Potendo contare anche sul sostegno di fondi esteri, egli ha creato un suo gruppo artistico, la Ty Chean’s troupe (che dispone di una pagina Facebook e un canale YouTube) specializzata nel teatro delle grandi ombre o sbek thom.

Figura 3. La scuola di Sophal, sede della Ty Chean’s troupe, 28 luglio 2019 (foto di Ilaria Meloni).

Il teatro delle ombre è una realtà diffusa in tutto il sud-est asiatico ed in alcuni paesi (come Indonesia e Malesia) esso è ancora un’arte vitale e onnipresente nella quotidianità della popolazione. Brandon (1969) cita diverse forme di teatro delle ombre in Cambogia che però oggi sono quasi del tutto estinte. Ne vengono ancora raramente eseguite solo due: lo sbek tauch (teatro delle piccole ombre) e lo sbek thom (teatro delle grandi ombre). Le differenze risiedono sostanzialmente nelle dimensioni delle marionette.

Lo sbek tauch è caratterizzato da figure di piccole dimensioni con articolazioni, manovrate da un singolo marionettista che provvede anche a tutte le voci e alla manipolazione delle marionette contro uno schermo bianco retro-illuminato. Lo sbek thom (quello che sopravvive meglio tutt’oggi ed è stato ufficialmente riconosciuto dall’UNESCO nel 2005) è invece caratterizzato da figure di grandi dimensioni, non articolate in singoli personaggi ma rappresentanti intere scene o azioni. È molto complesso proprio per questa forte interrelazione tra musica, danza, manipolazione delle marionette e narrazione. Le marionette possono essere alte fino a due metri e pesare fino a sette chili.

Ai primordi, lo sbek thom era un’arte considerata sacra. Le rappresentazioni venivano effettuate in onore delle divinità e solo in occasioni speciali come il Capodanno Khmer o il compleanno del re. Dopo il XV secolo, questa forma si è evoluta divenendo un vero e proprio genere artistico, ma ha mantenuto il carattere cerimoniale. Infatti, unitamente allo scopo d’intrattenimento, spesso le rappresentazioni venivano eseguite per invocare la pioggia o far cessare le epidemie. Le performance prevedono diversi marionettisti (fino a dieci) che danzano, eseguendo passi precisi e codificati e tenendo le marionette contro lo schermo, mentre due narratori raccontano storie tratte dall’epica Reamker (che è la versione cambogiana del Ramayana indiano) accompagnati l’orchestra pinpeat. Le rappresentazioni tradizionali avevano luogo di notte, all’aperto, nei pressi di templi e risaie e venivano aperte da un’invocazione agli spiriti khmer e ai maestri dell’arte, per richiedere protezione.

Sotto il regime dei Khmer rossi quest’arte è stata totalmente distrutta, ma dal 1979 ha ripreso ad essere perpetrata grazie all’impegno di alcuni artisti. Mentre originariamente si trattava di una tradizione prettamente maschile, dagli anni ’70, quando è stata adottata nella University of Fine Arts, le donne hanno cominciato ad essere incluse, anche per via della scarsità di marionettisti. Inoltre, dal XX secolo, e soprattutto dopo l’intervento dell’UNESCO, lo sbek thom è divenuto anche attrazione turistica e spesso viene interpolato con altre forme teatrali o di danza.

Ho visitato la scuola di Sophal nel luglio 2019 durante una stagione sfortunatamente poco produttiva. In quel periodo la Ty Chean’s troupe non aveva ricevuto molto ingaggi, una media di quattro al mese, che non è molto se pensiamo a realtà come l’isola di Giava in cui vi sono più spettacoli ogni notte.  Sophal cerca di mantenere la tradizione seppur con qualche innovazione, come la durata più ridotta (tipico di molte forme innovative anche in altre aree). Gli spettacoli vengono comunque effettuati all’aperto, come da tradizione, eccetto in caso di piogge monsoniche. Al tempo della mia visita Sophal contava una ventina di allievi più musicisti, danzatori e intagliatori professionisti.

Figura 4. Sophal e la sua troupe di musicisti con l’orchestra pinpeat durante una delle sessioni musicali settimanali davanti alle pagode di Preah Ang Check e Preah Ang Chom, Siem Reap, 21 luglio 2019 (foto di Ilaria Meloni).

La musica, eseguita dall’orchestra pinpeat, è un elemento onnipresente in questo tipo di teatro. L’orchestra, composta da xilofoni, gong, tamburi, flauti e cembali, si può trovare in diverse occasioni: dagli spettacoli teatrali alla danza di corte alle cerimonie nelle pagode. Sophal stesso è un musicista versatile. Mi capitava spesso di incontrarlo davanti alle pagode di Preah Ang Check e Preah Ang Chom, dove i devoti versavano offerte monetarie ai musicisti per richiedere i brani che li accompagnassero nella preghiera e nella meditazione davanti ai Buddha dorati. Camminando per le strade di Siem Reap si ha davvero l’impressione che la musica sia tornata in qualche modo a risuonare nelle vite dei cambogiani, seppur con qualche differenza rispetto al passato.

Conclusione

I casi presentati – dalla scrittrice Loung Ung al il cineasta John Pirozzi, dalla band Dengue Fever al maestro Sophal Kdib – sono solo alcuni esempi di come la musica e le arti sopravvivano anche al più sanguinario e spietato dei regimi. In questi casi, la divulgazione e la conoscenza sono alcune delle più grandi forme di rinascita:

As I tell people about genocide, I get the opportunity to redeem myself. I’ve had the chance to do something that’s worth my being alive. It’s empowering; it feels right. The more I tell people, the less the nightmares haunt me. The more people listen to me, the less I hate” (2000: 137).

Il primo passo per la rinascita è non dimenticare e non permettere di far pensare che si sia dimenticato il passato, per quanto fatto di luci ombre, come uno schermo retroilluminato sul quale prendono vita man mano i vari personaggi, su un sottofondo di musica rock nostalgica che li fa vivere e rivivere per sempre ad ogni ascolto e ad ogni nuova messa in scena della storia. Ogni sforzo di dar voce al passato è in questo senso un enorme contributo alla sua rinascita, e la musica è una delle voci più potenti.

Bibliografia

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Ung Loung

  1. First They Killed my Father: A Daughter of Cambodia Remembers, Mainstream Publishing.

Sitografia

Dengue Fever (official website): https://denguefevermusic.com

Ros Serey Sothea (Spotify channel): https://open.spotify.com/artist/6aBWAoJJ2F6HD6mTr2aLZ0?si=70Jr87V0QSuE2LljgaHoKw

Sinn Sisamouth (Spotify channel):

https://open.spotify.com/artist/5Vp49PDKCSLwmRI1qhb0oa?si=S_l8F24iQXGkVxRsdf7fCQ

Discografia

Various Artists. 1996. Cambodian Folk and Ceremonial Music. UNESCO, Smithsonian Folkways Recordings.

Dengue Fever. 2011. Cannibal Courtship. Conchord Music Group.

Dengue Fever. 2012. Escape from Dragon House. Tuk Tuk Records.

Dengue Fever. 2012. Pow Pow (Deluxe Edition). Tuk Tuk Records.

Dengue Fever. 2013. Tiger Phone Call. Tuk Tuk Records.

Dengue Fever. 2015. The Deepest Lake. Tuk Tuk Records.

Various Artists. 2015. Don’t think I’ve forgotten (soundtrack album of music from the film). Dust to Digital Records.

Filmografia

Panh, Rithy (diretto da). 1996. Bophana: une tragédie cambodgienne.

Pirozzi, John (diretto da). 2014. Don’t think I’ve forgotten. Cambodia’s lost Rock’n’Roll.

Pirozzi, John (diretto da). 2007. Dengue Fever: Sleepwalking through the Mekong (CD+DVD).