La nota degli altri

di Federico Dinelli

Sound of you (Shangai) – Millo, Cortesia della Dorothy Circus Gallery

 

Conviene partire da una domanda: la musica si ascolta o si sente?

Ascoltare va oltre il sentire, ma anche il sentire va oltre l’ascoltare. Questa affermazione, che sembra contraddire le regole basilari della logica, gioca sulla polivalenza semantica del verbo sentire: il primo sentire è sinonimo di udire; il secondo è sinonimo di provare un sentimento, un’emozione.

Ascoltare significa prestare attenzione. Prova ne sia che, se parliamo con qualcuno e vediamo che è distratto, gli domandiamo d’istinto: “mi ascolti?”

Le nostre vite sono piene di interferenze, siamo costantemente connessi con decine, centinaia, migliaia di persone, sempre circondati da rumori. È sempre più difficile, per non dire complicato, mettersi all’ascolto, farsi ascoltatori.

La parola ascoltatore, stranamente, si usa solo per indicare chi ascolta la radio. Forse perché quando la radio è nata, molto tempo prima della televisione, l’usanza delle famiglie era effettivamente quella di riunirsi la sera intorno alla radio per ascoltarla. Oggi invece la radio non si ascolta più, si sente e basta. La sentiamo in auto mentre guidiamo o parliamo al telefono, magari saltando freneticamente da una stazione all’altra. La sentiamo al supermercato mentre facciamo la spesa, oppure in qualsiasi altro negozio dove il senso di quel sottofondo musicale è evitare che si avverta il silenzio, come se questo ci mettesse a disagio. Eppure, anche il silenzio si ascolta. Anzi, se vogliamo, il silenzio è l’unica cosa che si può ascoltare, ma non sentire. Il silenzio si può ignorare, ma non si può – per dirla con un ossimoro – ascoltare distrattamente. E ascoltare il silenzio, in effetti, significa ascoltare noi stessi, i nostri pensieri.

Sono giorni strani, quelli che stiamo vivendo. Strange days. Stiamo sperimentando qualcosa che, finora, avevamo letto soltanto sui libri di storia: il coprifuoco. Scrivo queste parole da un appartamento che affaccia su una nota strada romana, molto trafficata. Normalmente, a quest’ora di sabato sera, la strada ruggirebbe ancora, come fosse pieno giorno. Adesso, invece, è completo silenzio. Chiudendo gli occhi, posso quasi immaginare di essere lontano da qui, “nei prati verdi della mia infanzia”, quando l’unico suono che interrompeva il silenzio, in quelle notti d’estate trascorse in campagna dai nonni, era quello del treno che passava poco lontano.

Paradossalmente, quelli che stiamo vivendo sono giorni buoni per ascoltare. Per ascoltare musica, ma anche per ascoltare chi è vicino a noi. E per farci ascoltare, anche.

Dicevo della radio: è ormai improprio utilizzare il termine “ascoltatori” per indicare il suo pubblico. I contenuti radiofonici sono dominati dall’idea che la radio si sente mentre si fa qualcos’altro. Non a caso, si dice di un brano che è “radiofonico” quando è in grado di fare presa anche su chi è distratto, su chi non ci sta troppo a pensare. Se un brano è complesso, lungo, articolato, di solito non va bene per la radio. E questo proprio perché si parte dal presupposto che chi “ascolta” la radio non lo fa con attenzione, con pazienza.

Ecco, sì, questo è un altro aspetto importante: ascoltare richiede pazienza. Chi ci chiede di ascoltarlo, ci chiede implicitamente di avere pazienza con lui. Perché ci deve dire qualcosa di importante, che gli sta a cuore. E dovremmo sentirci lusingati, perché evidentemente significa che ha considerazione per il nostro punto di vista. Interessare gli altri, in fondo, è la cosa che dovrebbe importarci di più. Ebbene, anche sapere ascoltare ci rende interessanti. “Così capii che al mondo, la gente puoi comprare, e la puoi conquistare, facendola parlare”. Cantava così Stefano Rosso. E aveva ragione: niente lusinga le persone più dell’essere ascoltate, del saper catturare l’attenzione degli altri. Occhio però all’ascolto ruffiano, interessato, quello al quale alludeva, per l’appunto, il cantautore trasteverino. L’ascolto di chi cerca di compiacere, di sedurre fingendo di essere lì per te, mentre è lì per sé.

Ma torniamo alla domanda iniziale: la musica si sente o si ascolta? La mia risposta è che la musica si sente – nel senso del provare emozione – ascoltandola. E io sono uno di quelli che ha sempre pensato che andrebbe ascoltata ad alto volume, con concentrazione, per sentirla bene veramente.

Anche suonare è un modo di ascoltare musica. Anzi, si dice che per suonare bisogna innanzitutto sapersi ascoltare. Chi non si ascolta, non migliora. I bravi maestri di musica consigliano di registrarsi e poi di riascoltarsi. Per capire esattamente se e dove abbiamo commesso degli errori e come dobbiamo migliorarci. Quando poi si suona insieme agli altri, ascoltarli è la prima regola. Sembra un’ovvietà, eppure non sempre accade. Ascoltare chi suona con noi è molto difficile, perché richiede attitudine, rispetto, umiltà. Ma quando succede, la differenza si sente. Le atmosfere sono giuste, si assecondano le intenzioni degli altri suonatori, si sale e si scende di volume tutti insieme. E la dinamica, nella musica, è tutto. Il gioco dei pieni e dei vuoti, degli alti e dei bassi. È questo che, alla fine, suscita l’emozione.

La musica si ascolta anche cantando. Come si fa nei concerti, con quelle canzoni “da cantare a squarciagola, come se cinquemila voci diventassero una sola”, direbbe Brunori. Quando questo succede, si produce quella magia per cui si ascolta essendo contemporaneamente ascoltati. È qualcosa che non si può fare quando si parla: parlare e ascoltare insieme è impossibile, o si parla o si ascolta. Si può fare invece con la musica: suonare, cantare e ascoltare, tutto nello stesso momento. E tutto questo ci unisce. “Quella gente quando canta che cos’è…”. Con queste semplici parole, Fabio Concato descrive la bellezza del cantare insieme. La bellezza dell’entrare in sintonia (dal greco syntonía ‘accordo di suoni’), e la sintonia – si sa – nasce dall’ascolto. Perché solo se si ascolta la nota degli altri si può intonare la stessa nota. Se invece ognuno canta la propria nota senza ascoltare quella degli altri, si crea una dissonanza. Fuori dall’ambito musicale, dissonanza è sinonimo di discordia. Generata anch’essa dalla mancanza di ascolto.

Studiare musica è importante. Non perché si debba diventare come Pat Metheny o come Keith Jarrett. Ma perché la musica ci insegna ad ascoltare. E più la si ascolta e più si impara ad ascoltarla e ad ascoltare. Ci insegna a sentire la nota degli altri. E, magari, anche ad amarla.