La lady di ferro del canto jazz italiano: Ada Montellanico
Cantante jazz e fondatrice delle associazioni Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) e Il Jazz va a scuola (IJVAS)
di Filippo Crudetti
Siamo lieti di presentare l’importante cantante jazz e didatta che negli ultimi anni, con le due associazioni da lei fondate e presiedute, si è spesa in prima persona per migliorare il livello della didattica jazz e dei musicisti italiani che producono questa musica.
Come è nato il tuo amore per la musica, in particolare per il jazz, quando hai capito che volevi fare la cantante e cosa significa per te essere una cantante jazz?
Ho iniziato a cantare già da piccola, poi da grande ho intrapreso gli studi di etnomusicologia alla Sapienza. Nel frattempo, sono entrata a far parte di un gruppo dove cantavo e suonavo il tamburello in modo professionale, avevo studiato con Alfio Antico uno dei maggiori interpreti della tamorra e del tamburo a cornice. Ho viaggiato molto facendo ricerca sul campo, soprattutto in Puglia. Ero, e sono tuttora, una grande appassionata di Ernesto de Martino e le ricerche nei luoghi in cui è ancora viva la cultura popolare mi ha sempre affascinato. Abbiamo studiato i fenomeni del tarantismo e intervistato molti musicisti, tra cui violinisti che erano considerati i soli a poter ʽcurareʼ dal morso della taranta attraverso la musica. Il mio gruppo si chiamava Anninnia e abbiamo tenuto concerti per circa due anni negli anni Ottanta, periodo in cui c’era una vera e propria moda della musica popolare, andavano per la maggiore la Nuova Compagnia Di canto popolare, Eugenio Bennato con Musicanova e Teresa De Sio. Poi quel fenomeno finì e insieme a quello anche il nostro gruppo e quindi presi una pausa di riflessione fino al giorno in cui un mio amico mi fece ascoltare il disco My Favorite Things di John Coltrane e fu la folgorazione. Iniziai a studiare il sax soprano nella Scuola di musica Popolare del Testaccio con Mario Raja e poi, in seguito sempre lì iniziai a far parte del laboratorio vocale di Nino De Rose. Ripresi a cantare e iniziò la mia carriera jazzistica, un percorso completamente nuovo che definirei fortunato in quanto ebbi modo quasi subito di incontrare grandissimi musicisti. Dopo soli due anni iniziai la collaborazione con Enrico Pieranunzi, che fu estremamente importante, mentre il mio primo pianista fu Marco Carilli ottimo musicista con cui ho cominciato ad elaborare con grande passione un mio personale ed originale repertorio.
Quali sono stati i modelli che ti hanno influenzata maggiormente e perché?
Dopo la folgorazione con John Coltrane, rispetto al canto inizialmente fui colpita fortemente da due cantanti molto diverse. La prima era Nancy Wilson, di cui mi era piaciuto tantissimo il disco realizzato con Cannonball Adderley. Ero attratta dal suo timbro di voce, dal modo di cantare e interpretare. L’altro polo di attrazione era Betty Carter. Due approcci completamente diversi sia riguardo l’espressione vocale sia riguardo l’elaborazione del materiale musicale, Betty Carter più sperimentatrice, più legata all’improvvisazione, alla rielaborazione degli arrangiamenti dei brani. Il tentativo di emulare Betty Carter provocò un grande stress al mio trio. In parte scherzo ma in parte dico seriamente, furono anni per me di grande formazione, facevamo molte prove ed è stato un periodo di forte crescita. Ero affascinata dallo spirito di ricerca e di innovazione di Betty Carter, dalla sua creatività, dal suo approccio compositivo di arrangiatrice-musicista e attraverso il suo ascolto provavo a trovare la mia identità e la mia personalità. Dall’altra invece Nancy Wilson mi attraeva per il timbro della voce, per il suono, il modo particolare e molto unico di cantare. Solo dopo molto tempo mi sono avvicinata a Billie Holiday. In genere una cantante all’inizio vuole imparare subito cose molto difficili e Billie Holiday a un ascolto superficiale può apparire semplice, giudizio in realtà errato perché si tratta di una semplicità molto complessa e molto profonda. La sua particolare unicità sta in quella capacità interpretativa fuori dal comune con un livello e uno spessore senza uguali.
Il ruolo della donna nella musica per te è sempre stato fondamentale, lo si evince anche ripercorrendo alcuni tuoi progetti come ABBEY’S ROAD – Omaggio ad Abbey Lincoln; Omaggio a Billie Holiday; Suono di donna. Puoi parlarci di questi progetti e spiegare cosa significa essere donna oggi nel mondo musicale?
Diciamo che il grande omaggio è stato Suono di donna, in cui ho focalizzato il discorso delle donne compositrici, arrangiatrici e direttrici d’orchestra, figure ancora troppo rare nel panorama musicale. La mia scelta è caduta su artiste che amo molto per motivi diversi, tra cui Carla Bley, Maria Schneider, Carmen Consoli, Joni Mitchell e Carole King, In questo progetto ho cercato di mostrare e dare luce all’aspetto femminile uscendo dagli stereotipi e modelli dell’interprete, della cantante o della pianista presenti in tutte le musiche. Ho voluto creare un percorso di figure artistiche che ricoprono ruoli storicamente ad appannaggio maschile e che per fortuna, dopo secoli e secoli, riusciamo lentamente e finalmente a conseguire.
Può succedere che, al di là della cultura dominante che relega la donna in certi ruoli, a volte siamo noi donne ad allearci a quel pensiero comune, entrando in una prigione mentale che ci impedisce di realizzare ciò che si vuole essere, mentre invece tutto deve nascere da una consapevolezza, frutto di una scelta libera e personale e non da una imposizione culturale. È necessario avere una certa forza e un certo coraggio, doti che per esempio aveva Abbey Lincoln, artista e donna di grande carisma e con una tempra da leone. Ha vissuto fino ad ottant’anni con una determinazione e una forza veramente invidiabili, un carattere combattivo e non autodistruttivo, tratto che invece ha caratterizzato la vita di Billie Holiday.
Nella tua carriera hai collaborato con grandissimi musicisti del calibro di Jimmy Cobb e Lee Konitz Aver conosciuto e collaborato con questi artisti cosa ha significato a livello musicale e umano?
Beh, direi tantissimo. Quando io ho iniziato a cantare non c’erano metodi, non c’era YouTube, non c’era niente o almeno in Italia non erano molto in uso. Non esistevano neanche corsi di canto moderno e ho dovuto iniziare a studiare con cantanti lirici. C’erano solo i dischi che ho consumato, l’ascolto dei musicisti e delle cantanti che amavo, e i concerti che riuscivo ad andare a vedere, cercando di non perderne nessuno. Quindi possiamo dire che i miei insegnanti sono stati loro. Da loro ho imparato tanto: dallo stare sul palco, al timing, a come vivere la musica. Come ho imparato dai musicisti con cui ho avuto la fortuna di cantare, Enrico Pieranunzi soprattutto, Enrico Rava e poi Jimmy Cobb, il cui incontro fu scioccante. Quando abbiamo fatto la prima prova assieme e ho iniziato a cantare e lui a suonare, mi sono girata per capire se fosse il disco Kind of blue, album che avevo letteralmente divorato. Risentire dietro le mie spalle lo stesso ʽquattroʼ che parte su So What è stato emozionante.
Con Jimmy Cobb abbiamo fatto tre tournée e un disco. Mi ha raccontato tante cose, aneddoti, fatti di vita vera, quella storia del jazz che leggi sui libri e che loro impersonificano totalmente, capisci anche da dove deriva la forza della loro musica. Non c’è da parlare, si suona e basta, ho imparato molto con le orecchie e con il cuore. Tra i grandi artisti con cui ho collaborato c’è Lee Konitz. Con lui ho inciso il disco Ma l’amore no e ho fatto vari concerti. Era rinomato per essere un burbero e per pretendere tanto da chi suonava con lui, per questo ero terrorizzata, ma alla fine ho ricevuto apprezzamenti e l’intento di continuare a collaborare. L’aver incontrato e condiviso musica insieme a questi grandi artisti per me rappresenta un grande privilegio.
Ci puoi parlare invece del progetto con Michel Godard?
Questo progetto in realtà lo devo a Paolo Damiani, che mi ha invitato al festival Una Terra Feconda, una manifestazione meravigliosa che si tiene a Roma e la cui particolarità consiste nella collaborazione con la Francia, quindi io avrei dovuto ospitare per il mio concerto un musicista francese. Amo molto la sonorità degli ottoni, ho realizzato altri progetti con Giovanni Falzone, Glauco Benedetti, Filippo Vignato, e l’ammirazione per Michel Godard, mi ha portato a pensare immediatamente che quell’invito al festival poteva essere l’occasione per poter intraprendere un progetto con lui coinvolgendo anche dei grandi giovani musicisti e grandi amici, persone che stimo e a cui voglio bene come Simone Graziano, Francesco Ponticelli e Bernardo Guerra. Con Simone non avevo mai suonato e sono stata contenta perché finalmente invece di sentirci per discutere di questioni associative, potevamo parlare e fare soprattutto musica insieme.
WeTuba è progetto molto particolare, sono tutti brani scritti da noi, rappresenta un lavoro collettivo con delle sonorità molto originali dovute soprattutto a Michel che sia con il tuba che con il serpentone ha donato al gruppo un sound speciale, tra l’altro entrambi gli strumenti si sposano molto bene con la mia voce. I brani originali su cui ho scritto dei testi sono stati composti per questo progetto da Simone Graziano, da Francesco Ponticelli e da Paolo Fresu che è ospite del disco. Il 23 aprile uscirà il singolo Sorriso, brano mio e di Paolo, dedicato tra l’altro a Dora la splendida bimba di Simone mentre tutto il disco uscirà il 7 maggio. il 29 ottobre 2021, Covid permettendo, lo presenteremo nella suggestiva cornice della Sala Vanni di Firenze, in piazza del Carmine per Musicus Concentus.
A questo punto ci puoi parlare di come è nata l’Associazione Nazionale Musicisti Di Jazz (MIDJ), della quale sei stata fondatrice e per quattro anni presidente?
MIDJ è nata nel 2014 da vari momenti di grande nervosismo e di presa di coscienza di quanto lavoro c’era da fare in Italia, di quanto il nostro mondo musicale, e in particolare quello jazz, fosse disgregato. Sembrava di assistere a una vera e propria guerra tra bande. Quindi il fatto di vedere la nostra posizione così poco tutelata e noi così tanto frammentati, ha fatto nascere in me l’idea di spingere per la creazione di un’associazione di musicisti jazz. In questo primo percorso di aggregazione, e anche di coinvolgimento dei vari musicisti, sono stata affiancata da Paolo Damiani e Filippo Bianchi che hanno dato un apporto importante. Sono stata eletta presidente e con Midj è nato un nuovo ciclo della mia vita che dura ormai da otto anni. Credo molto in questa associazione, che ho presieduto per quattro anni e che ora è guidata egregiamente da Simone Graziano. Abbiamo ricreato un clima di discussione animato, un rapporto fra di noi, ci siamo scambiati informazioni e siamo diventati più consapevoli della nostra realtà. Io stessa ho imparato molte cose e mi sono resa conto di ciò che non andava. Siamo riusciti ad aprire un importante varco istituzionale. Abbiamo fatto molto ma c’è ancora moltissimo da fare, i processi per avviare un radicale cambiamento sono lenti, ma prima di MIDJ non esisteva nulla, adesso ha sei anni, sembrano tanti, ma in realtà sono pochi: il jazz ha sicuramente un maggiore riconoscimento, si sono aperte delle interlocuzioni istituzionali che prima non c’erano e la parola jazz è entrata per la prima volta in organismi e decreti. Io stessa sono stata chiamata a far parte del Consiglio Superiore dello Spettacolo, organo consultivo del Ministro in cui non era mai entrata una rappresentanza del jazz. Qualche piccola grande soddisfazione è arrivata.
Da quando hai lasciato la carica di presidente dell’associazione è subentrato il pianista toscano Simone Graziano. Quali sono i traguardi più importanti che MIDJ ha realizzato?
Sono felicissima di aver passato la staffetta a Simone Graziano, è un grande presidente, si sta muovendo molto bene e l’associazione sta portando avanti battaglie importanti. Si continua un po’ quel percorso che avevo iniziato, cioè, da una parte tutto il lavoro istituzionale, dall’altro si promuovono progetti culturali innovativi. Già sotto la mia presidenza erano stati realizzati premi alla composizione, si è creato il AIR – Artisti in Residenza, un grandissimo progetto per l’esportazione dei musicisti all’estero e per creare residenze d’artista presso le sedi di Istituti Italiani di Cultura, Ambasciate e Consolati nel mondo. Nel tempo sono stati creati dei modelli di progetti culturali di assoluto spessore e ora ne sono nati nuovi. Abbiamo lavorato a fondamentali proposte legate al riconoscimento del musicista in quanto lavoratore dello spettacolo. Ci siamo sempre trovati a percorrere delle strade importanti ma poi l’avvicendamento dei ministri e dei governi ci ha bloccato e fatto rallentare. Un’altra cosa che abbiamo realizzato è il rapporto con il Ministero Degli Esteri che non c’era mai stato prima.
Eravamo anche in procinto, finalmente, di aprire i lavori per la creazione di un Export Office del jazz italiano. Infatti, prima del Covid-19 doveva esserci un primo incontro tra Mibact, Ministero Degli Esteri, MIDJ e la Federazione Il Jazz Italiano ma la pandemia ha fermato ovviamente tutto. In questo anno difficile ci siamo impegnati per creare il FAS – Forum Arte e Spettacolo, un ampio movimento costituito da varie realtà che riguardano lo spettacolo dal vivo.
Si è anche lavorato per alcune proposte di legge che adesso devono essere vagliate in Parlamento. Si sono mosse tante cose e al momento sono tutte ancora in lavorazione.
Ci sono progetti che a MIDJ preme maggiormente realizzare in futuro?
Quello che l’associazione dovrebbe sicuramente realizzare è far riconoscere al musicista il suo stato di essere lavoratore atipico con tutele, indennità, contributi previdenziali etc., il riconoscimento non solo di essere artista nel tempo della performance ma anche nel periodo che riguarda la progettazione, lo studio, le prove, etc. La possibilità anche di poter esportare la nostra musica perché sostenuti finanziariamente dal governo come tutti i paesi esteri. I musicisti dei paesi stranieri che vengono a suonare da noi spesso hanno a disposizione i viaggi, a volte anche cachet pagati, o vitto e alloggio. Noi invece se invitati a suonare siamo totalmente a carico del festival estero. Quindi, per questi motivi, siamo poco competitivi sia in Italia per questioni legate alla fiscalità che all’estero. A causa del Covid finalmente si è acceso un riflettore sulla condizione della categoria dei musicisti ma purtroppo non si vedono ancora risultati concreti. Il nostro è un Paese culturalmente arretrato, purtroppo.
Nel febbraio del 2019 hai fondato l’associazione Il Jazz va a Scuola (IJVAS), della quale sei presidente. Come è nata e quali sono i principali obiettivi su cui avete lavorato in questi anni?
Questa è un’associazione importantissima ed è afferente alla Federazione del jazz italiano presieduta da Paolo Fresu, che riunisce tutte le associazioni di jazz, i musicisti, i jazz club, la didattica, i fotografi, le etichette indipendenti di jazz e i festival. Per costruire realmente una nuova società, un nuovo pubblico, una nuova sensibilità all’arte e alla musica, bisogna partire da lì, dalla scuola dell’infanzia. Mai come in quest’anno ci siamo accorti di quanto la scuola sia fondamentale. Quindi bisogna aumentare l’attenzione verso la musica, visto che l’insegnamento della musica nelle scuole è pressoché inesistente e del jazz ancora meno. È entrato nei conservatori trenta anni fa per merito di Giorgio Gaslini, ma anche in ambito Afam si deve fare ancora molto perché il jazz acquisisca la sua identità, fisionomia, autonomia e anche valenza.
È necessario riconoscere che è una musica diversa, con delle specificità, come accade per le lingue: non è che il francese sia meglio dell’inglese, ma sono lingue diverse. Più in generale nella scuola italiana la musica dovrebbe essere considerata una materia come la geografia, la storia, etc., avere la stessa importanza. IJVAS in questi due anni ha fatto molta strada. Lo scorso anno abbiamo realizzato il Jazz Day con 230 interventi e lezioni concerto in 230 classi diverse, raggiungendo più di 5.000 bambini, purtroppo tutto online a causa Covid, ma coinvolgendo scuole di tutta l’Italia, da Favignana a Torino.
È stata un’esperienza incredibile. Ripeteremo il Jazz Day anche questo anno con un progetto ancora più ambizioso. Stiamo cercando di dialogare e di far conoscere tutto quello che nell’ambito dell’educazione musicale accade nel nostro paese e stiamo cercando di sviluppare una rete tra scuole, festival, jazz club, attraverso progetti condivisi. I bambini sono grandi improvvisatori e quando riescono ad entrare in relazione con il jazz e a conoscerlo se ne appassionano fortemente.
All’interno della didattica per l’infanzia, spesso il primo approccio alla musica è di tipo classico; secondo te quanto sarebbe importante cercare fin da subito di creare una didattica diversa, basata sull’improvvisazione?
Importantissimo. All’interno del Il Jazz va a scuola ci sono persone che lavorano da anni con bambini da 0 a 3 anni, i bambini piccolissimi in realtà sono naturalmente dei grandissimi esploratori e improvvisatori. La cosa importante nell’approccio è dare loro degli input e lasciarli liberi di esplorare attraverso i suoni e gli strumenti. I bambini possiedono in maniera straordinaria la dimensione giocosa, esplorativa ed improvvisativa. Nella mentalità comune si pensa che i bambini siano dei pappagalli che procedano per imitazione e personalmente ritengo questo pensiero estremamente violento. I bambini non imitano ma reagiscono a uno stimolo e creano. Anche nel linguaggio, non ripetono la stessa parola che tu gli hai detto ma la deformano ne inventano una loro, seguendo il suono, il loro suono interno, la loro fantasia. Quindi chi più dei bambini è portato ad approcciarsi all’improvvisazione? Il musicista improvvisatore reagisce a degli stimoli musicali degli altri oppure al materiale che si trova a suonare.
La nostra è anche una ricerca su cosa significhi la didattica del jazz, capire cosa noi didatti dovremmo facilitare e stimolare nei bambini e come poterlo fare attraverso il linguaggio jazzistico.
Ci avviamo al termine dell’intervista con un’ultima domanda. Ogni mese Ecce Musica – Magazine pubblica una parola chiave fornendo diversi spunti di riflessione. Per questo mese abbiamo scelto bellezza, cosa significa per te in relazione alla musica e all’arte?
Bellezza è una aspirazione naturale, una predisposizione dell’uomo.
Alcuni dicono che dentro l’uomo ci sia la belva, io invece penso che si nasca sani e che ci sia una sanità alla base di tutto, ma può accadere che ci si ammali a causa di rapporti deludenti. La bellezza è legata alla fantasia e quindi alla dimensione artistica che è un’aspirazione, una predisposizione, un anelito e allo stesso tempo una ricerca. Il massimo grado della bellezza nell’espressione umana lo possiamo ritrovare nella musica, nella pittura, nella scultura, nella scrittura, in tutte le forme artistiche. Per concludere una delle funzioni dell’artista è proprio quella di ricercare il bello e di portarlo anche in quei momenti e in quei luoghi dove esso sembra mancare per stimolare gli altri alla ricerca continua di una maggiore e più ricca umanità.