Editoriale II
di Raffaela Neri
Memoria: In generale, la capacità, comune a molti organismi, di conservare traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte. In particolare, con riferimento all’uomo (nel quale tale funzione raggiunge la più elevata organizzazione), il termine indica sia la capacità di ritenere traccia di informazioni relative a eventi, immagini, sensazioni, idee, ecc. di cui si sia avuto esperienza e di rievocarle quando lo stimolo originario sia cessato riconoscendole come stati di coscienza trascorsi, sia i contenuti stessi dell’esperienza in quanto sono rievocati, sia l’insieme dei meccanismi psicologici e neurofisiologici che permettono di registrare e successivamente di richiamare informazioni. (Treccani).
Quello che differenzia l’essere umano dalla specie animale, è la memoria collettiva, la capacità di ricordare esperienze non proprie ma altrui, che ne hanno in qualche modo condizionato l’esistenza.
La memoria è anche condivisione di esperienze che pensiamo, speriamo possano aiutare altri a trovare ispirazione. Ho avuto il modo di conoscere Elettra Marconi, una donna che ha con la sua grazia ed il suo dolcissimo sorriso dedicato la sua vita al ricordo del padre.
Esistono eventi però, per lo più drammatici dell’esistenza umana, per i quali sono stati istituiti giornate della Memoria con il proposito, l’impegno, il grido disperato “non succeda mai più”. Eventi drammatici consegnatici dalla storia che abbiamo il dovere morale di ricordare (ad esempio il 27 gennaio il giorno della Memoria per ricordare la Shoah, o il 10 febbraio in memoria dell’eccidio delle Foibe), ma anche ricorrenze per situazioni drammatiche che continuano a permeare la vita di tutti giorni, a ripetersi, che chiedono un impegno sempre maggiore perché smetta di accadere, perché non sia “mai più” ma piuttosto “non più”. Penso alla Giornata della memoria e dell’accoglienza – 3 ottobre, istituita dall’UNHCR in memoria dei migranti morti nel tentativo di raggiungere una vita migliore –, oppure il 21 marzo, giorno in cui in Italia si celebra la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
“Il dovere di ricordare”. “Non ne parlo mai, eppure so di sbagliare. Io ho il dovere di raccontare, ma tu, hai dovere di ricordare” Questa frase me la sono sentita dire quando ero adolescente.
Nel 1997 una della Suore dell’Istituto che frequentavo è stata riconosciuta Giusta fra le Nazioni.
Quel giorno entrai in presidenza per farmi autorizzare un ritardo notevole (da noi se arrivavi con 5 minuti di ritardo dovevi passare dalla preside) quando arrivò una telefonata. Suor Ferdinanda, la preside, era rigida. Molto rigida. Da lei ho imparato a non rimanere mai nella stanza se qualcuno è al telefono o riceve telefonate, ma mi fece cenno di non uscire, anzi, di sedermi davanti al lei mentre parlava. Attaccato il telefono mi disse che chiamavano da Israele e che avrebbero piantato un albero nel Monte dei Giusti per Suor Emerenziana. A lei poi lo hanno riconosciuto l’anno successivo.
Mi raccontò che avevano accolto degli ebrei: donne, uomini, bambini e bambine. Se li erano ritrovati davanti, una cinquantina che venivano un po’ da ovunque, tutti dallo stesso sentiero di paura. La scuola si era svuotata, non c’erano più educande perché tutti scappavano da Roma, quindi avevano fatto passare tutte le giovani e i bambini (anche i maschi quando si poteva) per educande – lei non me lo disse, ma poi ho scoperto che facevano davvero lezione –, le donne per suore e gli uomini li mandavano nei campi con i vestitoni e i cappelloni a fare le “suore di fatica”. Usavano le sale comuni, i refettori e poi le famiglie dormivano nelle aule, quelle che noi usavamo come aule, che erano state riconvertite a camere.
Nella villa affianco si erano insediate i tedeschi, che avevano lì il loro quartier generale. Tutti i giorni andavano a far visita alle Suore, per usare le loro cucine, e con qualcuno si anche era instaurato anche un buon rapporto.
Una notte scampanellarono al cancello, lei ed un’altra suora aprirono a quella richiesta chiassosa di perquisizione perché dicevano di aver visto degli ebrei. Mantenendo la calma, li ha seguiti per i corrodi bui del seminterrato, nel refettorio con le briciole ancora in terra, in chiesa, nei laboratori, lasciando che fossero loro a fare strada e scegliere dove andare. Arrivarono davanti alle scale, quelle vicino all’economato, che dal piano terra portano alle aule. “Stavano per salire ed io ebbi la forza di dire, lì si va per le stanze delle bambine”. I due si fermarono, parlottarono in tedesco, fecero il saluto militare e se andarono. “Non so come non sia impazzita quella notte.” “Se fossero saliti vi avrebbero uccise tutte.” “Se fossero saliti, se li avessero trovati, allora avrebbero capito e sarebbero andati a cercare in tutti gli istituti religiosi”.
Quel giorno ho capito tante cose: perché una scuola cattolica avesse un rapporto così stretto con la comunità ebraica, perché ci fossero studenti ebrei che frequentavano una scuola cattolica; di come la nostra città, ma immagino anche altre, abbia reagito alla cattiveria che si abbatteva su alcuni; di come la Chiesa, a modo suo, abbia agito (“lo facevamo per coscienza, ma le indicazioni, dopo la questione dell’oro, era di aiutare”). Ho capito che oltre all’orrore c’è stato il coraggio e l’amore; che certi valori non sono negoziabili nemmeno con se stessi, che anche davanti alla paura che attanaglia esiste un bene superiore che va sempre protetto.
Suor Ferdinanda non ne parlava mai, forse perché quella notte sarebbe potuta succedere una strage allargata. Quella memoria invece è stata tramandata da Suor Emerenziana, la prima ad essere riconosciuta Giusta fra le Nazioni, che con i suoi oltre 99 anni accoglie tutti con un sorriso incredibile e racconta di “quella paura tanta, tutti i giorni, ma bisognava farlo, non c’era mica da starci a pensare”.
Tramite la scuola ho conosciuto il “Progetto Memoria” dell’artista israeliano Eyal Lerner. Eyal Lerner ha fatto qualcosa che incarna il senso della memoria: rendere gli studenti portavoce di una memoria altrui, diventare parte integrante della “fiaba della testimonianza”. La rappresentazione si chiama “Che non abbiano fine mai… La memoria ebraica e della deportazione fra musica e racconti”. Quel loro (di abbiano) non è però un soggetto astratto, sono persone reali di una storia vicina agli studenti; non è uno spettacolo univoco, sempre quello proposto con un copione (per carità, quelli più belli magari lo saranno pure), una storia su tema indicato di volta in volta dalla scuola che si adatta sui ragazzi, storia di qualcosa che li rappresenta. Gli studenti vengono coinvolti in tutti gli aspetti della rappresentazione teatrale (scenografie, costumi, recitazione, luci), solo che anziché mettere in scena “sogno di una notte di mezza estate”, si rappresenta la vita di qualcuno che in qualche modo ci è vicino. Nel 2015 Eyal ha raccontato la storia di Suor Ferdinanda e di Suor Emerenziana e delle famiglie che hanno trovato una casa sicura nell’Istituto San Giuseppe.
Suor Ferdinanda non c’è più e io ho avuto il privilegio di sentire quella storia da lei. Non ho più attraversato quei corridoi a cuor leggero, non ho più usato quella scala.
Da quel giorno nei momenti della mia vita in cui ho bisogno di trovare il coraggio di affrontare certe decisioni o momenti difficili, ho iniziato a sognare di perdermi per i corridoi bui dei piani bassi della scuola, di passare davanti al refettorio con le briciole a terra, fino ad arrivare davanti alla scala vicino all’economato, quella scala davanti alla quale i due soldati tedeschi si sono fermati perché una piccola suora, con fermezza ha detto “lì si va per le camere delle bambine”.
Per chi volesse ascoltare Suor Emerenziana: https://youtu.be/2rPqcqosX48