Dopo Beethoven: eredità e nuove generazioni
La morte del maestro di Bonn è allo stesso tempo trauma ed opportunità: ripensare la musica, la forma, il suono. Ma, da sempre, la storia della musica è intrecciata alla storia della filosofia. Mai come adesso.
di Manuel Caruso
artwork: Alejandro Segui Couzo / musica: L. W. Beethoven, Sinfonia n. 9 in re minore, II Molto Vivace, West-Eastern Divan Orchestra & Daniel Barenboim
Ad ogni trauma corrisponde una conseguenza nella psicologia di chi lo subisce, sia che si tratti di un singolo, sia di una comunità. La morte di Beethoven, punto di riferimento di un’intera generazione di musicisti, è un esempio di trauma, le cui conseguenze in ambito musicale si intrecciano con le novità del mondo filosofico.
Beethoven leggeva Kant. Certo, lo faceva da autodidatta e con edizioni divulgative, come molti lettori del suo tempo, ricorda Heine (Solomon 2010):
Nell’anno 1789 […] in Germania non si parlava d’altro che della filosofia di Kant, di cui venivano diffusi in gran quantità commenti, crestomazie, interpretazioni, giudizi, apologie, e così via.
Kant colloca la musica nel gradino più basso della gerarchia delle arti perché incapace di trasmettere concetti o significati particolari; essa è in grado di commuovere l’animo, non per il suo contenuto, quanto per lo specifico linguaggio che la caratterizza (melodia ed armonia) assimilabile quasi a forme matematiche: è da qui che dipende il piacere dell’ascoltatore (Guanti 1981). Il bello artistico, per essere tale, deve mettere in moto le facoltà conoscitive attraverso la percezione della complessità. Uno studio di Antonio Rostagno mette in luce come, per Kant, il solo effetto che la melodia può esercitare sulle facoltà superiori conoscitive è ottenuto da simmetria e perfezione architettonica, ossia ciò che rende tutte le belle melodie uguali, conformi al modello, non uniche e originali (Rostagno 2014). In sintesi: una composizione è bella perché riconosco che è “fatta bene”, rispetta determinate regole, ha una sua struttura ma non ha contenuti comunicabili (come ad esempio la poesia).
Ora, è vero che Beethoven si formò dal punto di vista sociale e culturale sotto la stella dell’Illuminismo, così come è vero che conoscesse ed apprezzasse il Kant morale dell’imperativo categorico (Solomon 2010). Eppure, per Beethoven la musica è in grado di comunicare condividendo un linguaggio, di esprimere un bisogno, di raccontare un vissuto. Sorprende una lettera del 9 ottobre 1811 inviata all’editore Breitkopf & Härtel (Porzio 2018):
[…] Ho appena ricevuto il Lebewohl [Sonata op. 81, Les Adieux]. Vedo che Lei però ha pubblicato anche altre c[opie] con il titolo in francese. Perché mai? Lebewohl è una cosa del tutto diversa da Les Adieux. Lebewohl si dice affettuosamente a una persona sola, adieu a un insieme di persone, a una intera città.
Non si può certo dire che sia un’affermazione degna del miglior illuminista: Beethoven riconosce un contenuto nella sua musica, ne difende i tratti e rimprovera all’editore di alterarne il concetto di addio nascosto nei primi tre accordi della sonata op. 81 (Beethoven 1980, ed. Urtext):
È una posizione filosoficamente vicina all’Estetica di un altro filosofo del suo tempo: Hegel. La musica, in maniera diametralmente opposta al pensiero kantiano, è in grado di dar forma all’interiorità soggettiva; essa è dotata di un contenuto specifico che è il sentimento ed è libera soggettività ed espressione spirituale libera (Hegel 1997). Per Hegel, il compito principale della musica consisterà nel far risuonare non il mondo stesso degli oggetti in forma razionale ma, al contrario, il modo con cui l’Io più intimo è mosso secondo un’anima ideale (Guanti 2010). In estrema sintesi: la musica ci racconta qualcosa, una parte di sé che, però, non riesce ad esprimere in forme rigide e razionali perché, appunto, racconta un qualcosa che è irrazionale.
Ancor prima dell’Estetica, viene pubblicata nel 1799 una raccolta di scritti di Wilhem Heinrich Wackenroder, Fantasie sull’arte per amici dell’arte, il quale definisce la musica come arte che manifesta l’assoluta interiorità del soggetto rendendo percepibile ogni suo sentimento. La prospettiva kantiana è così travolta (Guanti 2010):
Per custodire dunque i sentimenti sono state fatte diverse belle invenzioni, e così sono nate tutte le arti. Ma io ritengo la musica come la più meravigliosa di queste scoperte, poiché essa rappresenta i sentimenti umani in una maniera soprannaturale […]. Se un musicista mi vede e si commuove ai disperati gesti delle mie mani, ecco che, tornato a casa, egli ricostruisce nelle sue note il dolore, diventato bello per merito suo. Con gioia e amore quel musicista trasforma e abbellisce l’umana tristezza, e così vien fuori un’opera che a tutto il mondo dà la più profonda commozione.
Nel 1827 e 1831 vengono a mancare rispettivamente Beethoven e Hegel. Una nuova generazione di musicisti si affaccia sulla scena musicale europea, con le loro peculiarità ma con una comune consapevolezza: il periodo delle grandi narrazioni, delle grandi forme musicali, sembra essere giunto al termine; tanto in musica quanto nelle altre arti vi è l’esigenza di una svolta radicale, di un rinnovamento artistico che prenderà il nome di Romanticismo, definito da Heine come il periodo in cui “lo spirito investe la materia” (Heine, 1979).
L’intellettuale romantico è colui che si contrappone alla vecchia concezione del mondo regolato da principi razionali ed immutabili, al “bello ideale” e perfetto; è colui che riscopre la propria individualità, concretizzandola nelle forme dell’arte a lui più congeniali (musica, letteratura, pittura). La radice più profonda del romanticismo sta infatti proprio nell’acquisita consapevolezza della natura multiforme, intrinsecamente contradditoria, continuamente mutevole alla realtà (Di Benedetto 1991). Se nella visione razionalistica l’assoluto è un aspetto immutabile, conosciuto e uguale in ogni tempo, in quella romantica tutto ciò si rivela ineffabile, irraggiungibile.
Come reagisce la musica a questo cambio di prospettiva? Vengono meno i punti di riferimento di un’intera generazione (Beethoven, Hegel, le grandi narrazioni, i grandi sistemi filosofici, la concezione totalizzante della forma) e viene assimilata la lezione hegeliana del contenuto in musica; il compositore dovrà adottare un altro linguaggio per esprimere la propria individualità instabile e frammentata. Vi saranno modalità e forme sempre cangianti e personalizzate, da musicista a musicista, da romantico a romantico, un esempio è il frammento, che per definizione è un pezzo rotto, una parte di discorso fatto altrove, una porzione di Assoluto che non può essere rappresentata ma soltanto avvertita (Beate Julia Perrey 2007). In termine pratici, per frammento si può intendere una melodia non lineare, una frase musicale molto breve, un pezzo pianistico caratteristico della durata di pochi minuti.
Un esempio di frammentismo romantico sono i lavori del giovane Robert Schumann, Papillons op. 2 (1829-1832), Intermezzi op. 4 (1832), Carnaval op. 9 (1834-1835), caratterizzati da un assemblaggio di composizioni molto brevi, della durata di pochi minuti o pochi secondi. Nulla a che vedere con la sonata settecentesca o la rigida fuga bachiana. Critici, esecutori e amici di Schumann definirono le sue composizioni bizzarre e complesse da ascoltare ed eseguire. Persino sua moglie Clara lo ammonirà in una lettera del 4 aprile 1839 (Rostagno 2016):
Senti Robert, non potresti per una volta comporre qualcosa di brillante, facilmente comprensibile, e qualcosa senza titoli, qualcosa che sia un pezzo completo, coerenti non troppo lungo né corto?
Amerei così tanto avere qualcosa di tuo da suonare nei concerti, qualcosa scritto per il pubblico. Certo, questo è degradante per un genio, ma la politica (diciamo così) lo richiede qualche volta.
Eppure, scrive Daverio, gli orizzonti compositivi di Schumann furono ampliati dallo studio intenso della musica di Beethoven, soprattutto riguardo la capacità di ricavare il massimo dell’inventiva dal poco materiale a disposizione, come ad esempio il celebre tema della Quinta sinfonia beethoveniana, architrave dell’intera composizione. In un appunto, Schumann riporta una riflessione sul rapporto tra forma musicale e contenuto melodico: “se non hai un’idea, allora prova a rendere interessanti la forma e la sua struttura delle parti; se, però, è disponibile un pensiero musicale, esso non richiederà un rivestimento armonico artificioso che in ogni caso fa spesso più danni che altro. In questo Beethoven sarà un modello incomparabilmente buono”. Schumann, che muove i primi passi come critico musicale, riconosce gli aspetti peculiari della musica coeva, come il già citato frammentismo e il conseguente abbandono delle forme classiche, giunte al termine del loro ciclo vitale perché rappresentanti di un mondo musicale (e culturale) scomparso: “più che ripetere le stesse forme per secoli, dobbiamo mirare a crearne di nuove” (Daverio 2015). Non ha senso rievocare le antiche forme solo per il gusto di somigliare ai propri maestri, per essere ricordarti come delle imitazioni di Beethoven, Bach, o Mozart; il compositore deve cogliere ciò che c’è di buono nel passato per costruire un futuro nuovo. Ed il frammento procede in questa direzione, perché da una parte raccoglie la massima beethoveniana del comporre con poco, dall’altra è un tipo di scrittura funzionale ad esprimere quella indecifrabilità tipicamente romantica; un chiaro segnale di rinnovamento rispetto ad un passato caratterizzato da logiche stabili, forme razionali.
L’elemento frammentistico, in alcuni casi, è presente anche nelle produzioni liederistiche, si pensi ad esempio al primo lied del Dichterliebe op. 48, una composizione molto breve, della durata di pochi minuti e dal finale sospeso su una dominante che non risolve:
Schumann non pretende di assomigliare al suo Maestro, anzi, ne raccoglie l’eredità plasmandola secondo la propria individualità.
Lo scopo di Schumann, nell’esempio sopra evidenziato, è far risuonare le note che compongono l’accordo dell’ultima misura soltanto alzando le dita uno alla volta senza colpire nuovamente nessun tasto (secondo Charles Rosen, è il primo caso nella storia della musica): è un effetto puramente pensato e concretamente poco realizzabile, ma indice di una nuova mentalità musicale, di un decisivo cambio di passo.
Ma se la forma frammentata, il pezzo breve o la melodia “non suonata” sono esempi di nuova musicalità post-beethoveniana, lo è anche la materia che la compone. Le armonie utilizzate sono sempre più elaborate, dissonanti, perché vi è una diversa sensibilità, un diverso modo di pensare non solo la musica in generale, ma il suono inteso come “materia prima”, imponendo un ascolto non distratto.
Fryderic Chopin, altra figura romantica per eccellenza, in questo senso è emblematico, soprattutto per chi ebbe il privilegio di ascoltarlo (Eigeldinger 2010):
Chopin! Non è un uomo, è un angelo, un dio – che posso dire di più? […] Mentre Chopin suonava, io non riuscivo a pensare a nient’altro che elfi e danze di fate, talmente meravigliosa è l’impressione che si sprigiona dalle sue composizioni. Nulla in questa musica ricorda che è stata un essere umano a comporla. Sembra scesa dal cielo, così pura, trasparente e ideale. Solo a pensarci mi vengono i brividi.
Egli ebbe un interesse particolare per il timbro, la qualità sonora della composizione svincolata dalla funzione sintattica (anticipando di un secolo l’armonia pre-impressionista); la capacità di creare particolari risonanze con il proprio strumento lo rende da questo punto di vista “nuovo” rispetto alla precedente generazione classica, perché, si ribadisce, nuove sono le sonorità concepite, così come è nuova la tecnica per realizzarle. Si parla infatti di virtuosismo, di capacità di portare al massimo le potenzialità del proprio strumento.
I 24 studi per pianoforte riassumono il connubio romantico (nonché chopiniano) tra lirismo, forte dissonanza, virtuosismo. Ne è un esempio lo studio op. 25 n.11, caratterizzato da una graziosa melodia al basso ornata da un funesto susseguirsi di virtuosi cromatismi della mano destra:
Concludiamo con una riflessione di Michele Cavallo: ciò che commuove l’ascoltatore è sia la fantasia del compositore, ovvero l’elemento propulsivo che si avvale di immagini e idee, sia gli stessi elementi formali della musica, i modi concatenazione significante che di per sé portano pensieri e immagini (Cavallo 2014). Ed è racchiusa qui l’eredità di Beethoven, in questo rapporto triadico tra forma, contenuto e compositore: saper giocare, saper comunicare, saper commuovere: “Si dice che la vita è breve e l’arte è lunga, ma lunga è la vita e breve è l’arte; se il suo soffio ci eleva sino agli dèi, non è che per un solo istante (Porzio 2018)”.
Bibliografia:
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CAVALLO MICHELE, L’inconscio musicale. Riflessioni intorno a Robert Schumann, in Robert
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DAVERIO JOHN, Robert Schumann – Araldo di una nuova età poetica, Astrolabio, Roma 2015, p. 112, 143.
DI BENEDETTO RENATO, L’Ottocento e le scuole nazionali, EDT, Torino 1991, p. 16.
EDLER ARNFRIED., La posizione di Robert Schumann sui problemi letterari e religiosi fra il 1830 e 1848, in Robert Schumann dall’Italia, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2014, p. 3.
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GUANTI GIOVANNI (a cura di), Romanticismo e musica – l’estetica musicale da Kant a Nietzsche,
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HEINE HEINRICH, La Germania, a cura di Paolo Chiarini, Bulzoni, Roma 1979, p. 156.
PERREY BEATE JULIA, Schumann’s Dichterliebe and early romantic poeties: fragmentation of desire,
Cambridge University Press, 2007, p. 27.
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ROSEN CHARLES, La generazione romantica, Adelphi, Milano 2013, p. 31
ROSTAGNO ANTONIO, Schumann e Bellini (e Donizetti): “melodia e melodie”, in A.
ROSTAGNO E E. NOVARA (a cura di), Robert Schumann dall’Italia, Libreria Musicale Italiana, Lucca 2014, p. 209.
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SOLOMON MAYNARD, Beethoven – La vita, l’opera, il romanzo familiare, Marsilio, Venezia 2010, p. 47, 48.